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“Venerdì in Vintage”-DJAngelino

today10 Febbraio 2023 1

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BLONDIE

Dalle influenze spectoriane, rilette con vigore punk, degli esordi al pop da stato dell’arte delle opere più mature, il cammino dei Blondie è sempre stato alla ricerca della perfetta formula pop-rock. Melodie accattivanti, ritmi trascinanti e ritornelli killer sono riscontrabili pressoché in tutti i lavori della band newyorkese. Ma i Blondie non si sono certo limitati a scrivere pezzi frizzanti e contagiosi: hanno portato al primo posto delle classifiche mondiali brani innovativi e dalla struttura insolita come “Heart Of Glass”, “Atomic” o “Rapture”, che mischiavano il rock con le più svariate forme di black music (disco, funk, reggae, persino rap). Queste contaminazioni, questa instancabile smania di esplorare qualsiasi cosa hanno contribuito a rendere Debbie Harry, Chris Stein, Clem Burke & C. tra i più credibili messaggeri urbani della loro amata città: New York City. Poche altre band infatti possono vantare un rapporto così stretto con il proprio luogo di provenienza. I Blondie rimangono ancora oggi un vivido esempio di contaminazione newyorkese, basti pensare all’impatto avuto da un brano epocale come “Rapture”, un ibrido di funk, disco, rap, jazz, rock e chi più ne ha più ne metta, che per primo ha portato l’hip-hop verso un audience bianco. Nel video girato per la stessa “Rapture” si possono riconoscere artisti non convenzionali del calibro di Fab 5 Freddy, Lee Quiñones e un giovanissimo Jean-Michel Basquiat, a testimonianza del fatto che – anche nel loro periodo di massima popolarità – i Blondie non avessero rinunciato a incorporare nella loro musica ogni influsso, ogni suono, ogni tendenza di strada, senza nessuna distinzione tra cultura alta e bassa, senza alcun pregiudizio razziale.

. Così come erano stati tra i primi a utilizzare i sintetizzatori, unendo l’elettronica agli strumenti tradizionali (emblematico il caso di “Heart Of Glass”, disco-music d’alta classe che fa coesistere i vocalizzi sensuali della Harry con esuberanti tastiere proto synth-pop, in un tripudio di tempi dispari ballato in tutto il mondo). Pur senza mai rinunciare a una sensibilità pop di fondo, i Blondie hanno indicato una nuova strada da seguire, introducendo idee radicali nella musica mainstream e facendo conoscere per primi al pubblico di Top of the Pops quella New York underground dalla quale erano così orgogliosi di provenireProprio il fatto di essere una band sfuggente a catalogazioni nette ne testimonia ulteriormente la grandezza. Grazie all’apertura mentale della coppia Harry-Stein, i Blondie assimilavano rapidamente le influenze più disparate, per poi metterle tutte insieme. Nella loro proposta musicale c’era quindi spazio per la new wave, per il punk, per il power pop, per il garage rock, per la disco-music, per il reggae, per l’hip-hop. Lottavano contro i preconcetti musicali, spinti da una buona dose di incoscienza e da una totale indifferenza alle critiche. Fin dai primi tempi, del resto, i Blondie fornivano una prospettiva diversa della scena punk di NYC, erano percepiti come un’anomalia all’interno del Cbgb, una sorta di scheggia impazzita (seppur non mancassero, comunque, alcuni punti di contatto coi Ramones e coi Talking Heads).
Tuttavia, nonostante i Blondie siano stati un anello di congiunzione decisivo tra due epoche, una delle band che meglio hanno caratterizzato il passaggio dagli anni 70 agli anni 80, e nonostante il loro look e il loro sound siano stati ampiamente imitati in seguito, non sempre è stata riconosciuta la loro importanza storica.

La critica, soprattutto quella più snob e intellettuale, e in particolar modo quella italiana, in passato ha spesso sottostimato i Blondie, colpevoli sostanzialmente di essere “troppo pop” (manco fosse un peccato mortale) e di sfruttare oltre il lecito l’immagine di Debbie Harry; inoltre, per alcuni oltranzisti, i Blondie sono anche quelli che si sono sputtanati con la disco. La maggior parte delle analisi dell’epoca erano contraddistinte da un cinismo irritante nei confronti della band e della figura di Debbie, ma anche in tempi più recenti è capitato di vedere i Blondie superficialmente inseriti da alcuni addetti ai lavori nel versante più disimpegnato e frivolo della new wave. Il lato edonistico dei Blondie appare evidente, così come non si può negare che la bellezza della vocalist abbia in parte contribuito al successo del gruppo (nuocendo però, allo stesso modo, alla loro reputazione strettamente musicale), ma si tratta di semplici ingredienti all’interno di una pietanza ben più ricca e varia, che non va per questo motivo sminuita o presa poco sul serio.

Cyndi Loper

La ragazza doveva solo divertirsi, e il successo sarebbe venuto da sé. Avevano fiutato l’affare quelli della Epic Records mettendo sotto contratto la non più giovanissima Cyndi Lauper, disoccupata dopo lo scioglimento della sua scanzonata band rockabilly, i Blue Angel, apprezzati dalla critica ma snobbati dal grande pubblico. Non poteva passare inosservata, secondo loro, quella piccola donna così insolita e dalla goffa ma esuberante femminilità, con una fulva capigliatura punk e quel look che sembrava un incidente col baule dei costumi di carnevale. E soprattutto non era il caso di lasciare senza microfono quella stridula voce da bambina impertinente, capace di raggiungere inaspettate ottave e tingersi improvvisamente di toni disperatamente drammatici.
La affidarono a un promettente produttore e businessman come Rick Chertoff e le diedero a disposizione una manciata di pezzi da interpretare. Una storia che si è costantemente ripetuta nel corso degli anni fino a raggiungere i connotati di una fredda catena di montaggio, volta più all’ottenimento del profitto monetario che a quello artistico.
Quella volta, però, le cose andarono diversamente, perché Cyndi Lauper era un’interprete di razza e uno spirito artistico tutt’altro che domabile e perché le canzoni in questione le calzavano meglio dei suoi strampalati vestiti, fotografavano il suo personaggio e immaginario così fedelmente da sembrare inscindibili da lei e inimmaginabili cantate da qualcun altro.I soldi cambiarono tutto, sì, ma anche le grandi canzoni pop, e il caleidoscopico “She’s So Unusual” ne conteneva parecchie, tutte pronte a trasformare Cyndi Lauper nella popstar su cui tenere gli occhi puntati e le orecchie ben aperte. E a inaugurare il nuovo corso della sua carriera fu proprio il trascinante e scintillante jangle-pop di “Money Changes Everything” dove, tra un’armonica blues e una linea di synth dal sapore quasi celtico, si gettavano le coordinate seguite a breve da tanti gruppi di successo, dalle Bangles (con cui avrebbe collaborato nel suo secondo album) agli Eurythmics, ben presto pronti a lasciarsi alle spalle la pelle elettronica per seguire sonorità simili.
Ma a cambiare la vita della Lauper fu soprattutto il primo, irresistibile singolo estratto dall’album, quella singhiozzante caciara electro-pop di “Girls Just Wanna Have Fun”, impossibile scacciarla dalla testa, che fu eletta inno femminista da un’intera generazione di ragazze per poi diventare uno dei pezzi pop più peculiari di tutti gli anni 80.

Ad arricchire il pool di brani indimenticabili ci pensavano anche la sognante ballata “All Through The Night” che si stagliava su un delicato sfondo di iridescente elettronica fino a sciogliersi letteralmente sul malinconico ritornello e la cover di un misconosciuto pezzo di Prince (da poco salito alla ribalta con “1999”) tratto dal suo primo vero capolavoro, “Dirty Mind”, di soli tre anni prima: Lauper esasperò le tinte synth-wave di “When You Were Mine”, epurandola dalla lievità originale e rendendola più cupa anche grazie alla melodrammatica interpretazione che sfociava addirittura in eccessivi singulti finali.
L’influenza del genietto di Minneapolis si riscontrava anche nel synth-funk grasso e pruriginoso di “I’ll Kiss You” e nella scelta kitsch di riproporre una vecchia torch-song anni 20, “He’s So Unusual” (che declinata al femminile funse da calzante title track), come se fosse suonata da una gracchiante grammofono.

Un vezzo a cui ricorreranno tante altre dive del pop negli anni a venire.
L’inquieta ragazza, però, ci teneva a dire anche la sua e a dimostrare le sue doti di autrice già manifestate nei Blue Angel. Partecipò quindi alla stesura di alcuni brani, portando l’esperienza vissuta nella multietnica club-scene newyorkese, sia come cantante che come cameriera, e che prese le sembianze di “Witness”, dalle venature reggae ben lontane da quelle, quasi vacanziere, della recente rilettura di “The Tide Is High” dei Blondie e del rockabilly sintetico di “Yeah Yeah”, che chiudeva l’album tra incalzanti fiati ska e inalazioni di elio.

Whitney Houston

Whitney Elizabeth Houston nasce a Newark il giorno 9 agosto 1963.

Nel 2008 il Guinness dei primati ha dichiarato Whitney l’artista più premiata e popolare al mondo. Ha dominato la scena canora dal 1980 al 1990 vendendo circa 55 milioni di dischi. Oprah Winfrey le ha affibbiato il soprannome “The Voice” – che fu in campo maschile di Frank Sinatra – per la potenza della sua voce. Le sue vendite complessive di album, singoli e video conta oltre 170 milioni di copie.

È facile forse capire come la depressione che l’ha colpita negli anni successivi e la caduta nel tunnel della tossicodipendenza possano avere a che fare anche con la gestione di un tale enorme successo planetario. A questi si aggiungono i problemi familiari, durati a lungo, che l’hanno portata poi a divorziare nel 2006 dal marito cantante Bobby Brown (sposato nel 1992), tra l’altro accusato di maltrattamenti già nel 1993. Nello stesso anno, e dopo un aborto spontaneo, nel 1993 dà alla luce la figlia, Bobbi Kristina Houston Brown.

In campo cinematografico Whitney Houston è celebre la sua partecipazione al fianco di Kevin Costner nel film “Bodyguard” del 1992 che la consacra definitivamente. Tra i suoi più grandi successi ci sono “I wanna dance with somebody” (brano di esordio), “I will always love you”, “How will I know” e “Saving all my love for you”. Ricordiamo anche “One Moment in Time”, inno delle Olimpiadi di Seoul 1988. Whitney Houston muore all’età di 48 anni, il giorno 11 febbraio 2012: il suo corpo viene trovato esanime al Beverly Hilton di Beverly Hills, a Los Angeles, dove si trovava per partecipare al party dei Grammy Awards.


Scritto da: admin

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