Vintage

“Venerdì in Vintage”- DJAngelino

today2 Dicembre 2022

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ERASURE 

Album numero 18 per lo storico duo che debuttò nel 1985 con il singolo Who Needs Love (Like That), forte delle esperienze di Vince Clarke prima con i Depeche Mode (di cui fu membro fondatore e autore dei brani dell’LP debutto Speak and Spell con l’eccezione di Tora! Tora! Tora! Big Muff), poi con gli Yazoo insieme ad Alison Moyet e in seguito ancora con gli Assembly. Noti per un synth-pop a tinte pastello, con melodie accattivanti tanto ballabili quanto introspettive, gli Erasure non sono tuttavia nuovi a sperimentazioni e improvvise virate (l’album omonimo del 1995, pur non ottenendo un successo paragonabile a quello dei bestseller The InnocentsChorus  e I Say, I Say, I Say, presentava brani insolitamente d’atmosfera, con lunghi passaggi strumentali in odore di Tangerine Dream e un’ospite come Diamanda Galas).

Dopo essersi concessi negli ultimi vent’anni anche un disco di cover (Other People’s Songs), una raccolta di rivisitazioni in chiave acustica (Union Street) e un lavoro a tema natalizio, arriva il 12 agosto 2022 un complesso rifacimento del precedente Lp The Neon per il quale Clarke, durante il lockdown, ha manipolato i file audio del disco originale portandoli in direzioni inaspettate, più riflessive e meno inclini al dancefloor. Ancora una volta Andy Bell e Vince Clarke hanno lavorato fianco a fianco con Gareth Jones. Il primo singolo estratto è Day-Glo

BILLY IDOL

Pregevole artista o simpatico cialtrone? Vero e proprio sex-symbol, ma anche ex-tossicodipendente, pericolosamente appassionato di donne, moto e velocità… Nessun altro come lui, per buona parte degli anni 80, ha saputo incarnare quella figura, ormai estinta nell’odierno panorama musicale, del divo rocker, sregolato e autodistruttivo, ma capace allo stesso tempo di far colpo su un pubblico ampio e variegato, forte di un indiscutibile fiuto per la melodia killer e di una voce e un’abilità interpretativa ben lontane dall’approssimazione del punk, genere con cui comunque terrà a battesimo la sua carriera. Nasce a Stanmore, sobborgo di Londra, nel 1955 come William Michael Albert Broad, trascorrendo un’infanzia felice in una famiglia unita, ma mostrando da subito i segni di un carattere dirompente e ribelle: viene espulso dagli scout per le sue effusioni con una coetanea e decide già ai tempi della scuola quale sarebbe stato il suo futuro nome d’arte, Billy Idol appunto. Quando infatti una sua insegnante scrisse a margine di un suo compito in classe “Billy is idle” (“Billy è un fannullone”) egli si ripromise di trasformarlo e diventare “idol” (idolo) e cominciò già da allora a farsi chiamare così. Dotato di un’intelligenza brillante proverà anche a frequentare l’Università, per poi lasciarla a cause delle continue distrazioni in una Londra che stava per mutare totalmente. E’ già l’alba del 1975.

In questo periodo infatti comincerà ad appassionarsi alla nascente musica punk, frequentando la scena underground londinese, vestendosi al Malcolm McLaren sex shop e seguendo fedelmente i Sex Pistols nelle loro prime apparizioni. Capirà però subito di voler far parte in prima persona della “rivoluzione” in atto: formerà quindi, insieme al suo amico Steve Upstone, i Rockettes, gruppo che si esibiva perlopiù in cover di altre band. Finita questa esperienza, più che altro goliardica, Billy inizierà a fare sul serio insieme al bassista Tony James (precedentemente nei London SS assieme a Terry Chimes e Mick Jones dei futuri Clash), al batterista Mark Laff e al chitarrista Bob Andrews, i membri del suo nuovo gruppo, i Generation X. Con questa line-up (divenuta definitiva a seguito di svariate sostituzioni) il gruppo riuscì a ottenere il suo primo contratto discografico con la Chrysalis Records che gli permise di pubblicare tre album.
Se il primo lavoro, Generation X del 1978, può essere considerato un buon prodotto di punk convenzionale, nonostante quello proposto dal gruppo fosse leggermente più depurato rispetto a quello dei “cugini” Sex Pistols, non disdegnando quindi, seppur nella sua grinta, una certa orecchiabilità di fondo (come testimoniano la hit-single “Ready Steady Go” e la corposa ballad “Kiss Me Deadly”), già nel secondo Valley Of Dolls, dell’anno successivo, lo stile si raffinerà ulteriormente. A produrre l’album verrà chiamato un musicista ben lontano dalla scena punk, un “dinosauro” come Ian Hunter dei Mott The Hoople, che introdurrà elementi rockabilly e persino folk nella loro musica (“The Prime Of Kenny Silvers) ma soprattutto una buona dose di glam-rock come testimoniano pezzi quali “Gimme some Truth” e “King Rocker”, quasi una figlia illegittima della “Sufraggette City” di Bowie (del quale spesso proporranno “Andy Wharol” dal vivo).

“King Rocker” raggiungerà la top 20 in Uk e porterà il gruppo ad esibirsi a Top Of The Pops, generando lo sdegno degli appassionati punk per una trovata pubblicitaria così commerciale (nonostante poi l’album riceverà solo una tiepida accoglienza).
E’ da questo lavoro che iniziano a intravedersi le basi della futura produzione solista di Idol, e a manifestarsi l’attitudine del biondo frontman a voler emerger rispetto agli altri membri. Gli attriti all’interno del gruppo sono quindi dietro l’angolo e proprio durante le registrazioni del terzo album, Sweet Revenge, Mark Laff e Bob Andrews, insoddisfatti per la direzione musicale che il gruppo stava per imboccare, abbandoneranno improvvisamente la band.

YES

Domanda: perché la musica degli Yes è così unica e incredibile? Risposta: perché non c’è un altro gruppo che abbia saputo unire in maniera tanto perfetta una serie di particolarità. Anzitutto gli Yes sanno suonare, e anche molto bene. Ognuno è un asso al suo strumento, ma tale abilità non è mai fine a se stessa ma è messa sempre a disposizione delle canzoni. Già le canzoni, quelle degli Yes possono durare dai 3 ai 30 minuti, ma sono sempre alte opere di ingegno. Qualcuno ha detto che gli Yes suonano parti soliste che incastrate tra di loro creano i brani. Ogni pezzo degli Yes è infatti un mondo in continua trasformazione, un po’ come osservare un microcosmo nel quale gli elementi danzano una danza tutta loro, inafferrabile per l’occhio umano e apparentemente caotica, ma in realtà perfetta. Un esempio per tutti: la sezione iniziale della suite per eccellenza, Close to the Edge. Qualcuno riesce a capire cosa diavolo stiano suonando, chi stia facendo cosa? È un delirio che a ben ascoltare si rivela un puzzle nel quale a un certo punto, come per magia, tutti i pezzi combaciano. E lì, in uno squarcio di luce intensa, esce allo scoperto un tema melodico immortale. Vogliamo paragonare l’ardire di composizioni del genere alle più importanti pagine classiche di Bach, Beethoven o Mozart? Facciamolo! Se non lo facciamo oggi ci penserà qualcuno domani, perché questa è la vera musica classica del futuro ed è classica proprio perché rimarrà per sempre. Soffermiamoci ora sull’operato dei singoli musicisti, prendiamo quelli dell’âge d’or (nel tempo cambieranno un miliardo di volte, ma tanto tutti tornano sempre all’ovile).

). Chris Squire: colonna portante, un basso che è esso stesso lo Yes-sound. Lo strumento in evidenza come non mai, forte, possente, a muoversi su mille note che mutano costantemente l’armonia. E poi che abilità ai cori. Steve Howe: uno che con gli strumenti a corda spazia dal rock, al flamenco passando per il jazz, il ragtime, il funk, il blues, la classica e mille altri stili. Rick Wakeman: eccessivo da tutti i punti di vista, gli dai una tastiera, te la percorre a velocità folle grazie alle sue dita extraterrestri e in mezzo ci piazza la melodia vincente (extra Yes: vogliamo ricordarlo in Life on Mars?). Bill Bruford: saetta batteristica che Robert Fripp a un certo punto vuole nei King Crimson, e ho detto tutto. Infine Jon Anderson: la voce fatata del prog per eccellenza. Uomo dalle ampie visioni che col suo timbro e i suoi testi-non-testi ha fatto sognare più generazioni facendosi portavoce di un messaggio di fratellanza tra l’uomo e la realtà che lo circonda. Un mistico che ti prende per mano e ti rivela cosa sia la bellezza. C’è abbastanza materiale per la creazione di una super-musica, che va oltre ogni istanza terrena e che trasmette all’ascoltatore un senso di grandezza smisurata. La musica degli Yes è da sempre ritenuta eccessiva, solenne, strabordante, pomposa e blablabla. Tutte cose che più le senti e più li ami. Oppure li odi, ma questi sono problemi tuoi.

Eppoi nei loro molti decenni di carriera i nostri hanno dimostrato di sapere spaziare, e bene. Cè chi li conosce solo per Owner of a Lonely Heart, uno dei riff per eccellenza del rock. E sono gli stessi che solo poco tempo prima componevano Sound Chaser. Questo essere così polimorfi e in grado di azzeccare sempre il pezzo, che sia prog o pop, è un altro fattore che li rende quello che sono. O che sono stati.

Scritto da: admin

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