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“Venerdì in Vintage”-DJAngelino

today25 Novembre 2022

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DONNA SUMMER

Nel 1979 la discomusic, come se interpretasse il suo canto del cigno, sfornava un successo intitolato I Will Survive, un monito, un segno, una conferma, anche con i cancelli chiusi e lo Studio 54 senza Andy Warhol, la Disco Revoluti on sarebbe sopravvissuta, penetrata, emulsionata in qualcos’altro da comprendere. C’è chi nello stesso anno lo aveva già compreso e realizzato, è il trio Moroder/SUMMER/Bellote, autori e inventori nel 1975 della disco elettronica made in Europe, sdoganata dalla Casablanca Records, negli States e vera nave scuola per la dance dei decenni a venire. Lo avevano capito così bene da farne un album doppio, una rarità all’epoca, soprattutto per le produzioni Disco.Bad Girls era il quinto concept album di Donna SUMMER, suo terzo doppio album consecutivo, successivo ad un live e un Oscar per miglior colonna sonora con Last Dance. Lo scenario musicale dove nell’aprile 1979 è atterrato Bad Girls era un contrasto netto, o di qua o di là, niente esplorazioni, niente scambi, impossibile, sia per ragioni sociali che politiche. Il trio Moroder/SUMMER/Bellote con l’ecclettica voce di Donna, mai ferma, rompe questo tabù. Una serie di pezzi che facevano cantare i neri come i bianchi e i bianchi come i neri. Che facevano suonare la disco come il rock, il rock come la disco. Sbalorditivo. Rivoluzionario. Ma nessun lo deve dichiarare. L’album vende in tutto il mondo più di sette milioni di copie (un doppio!) e questo è il suo vero difetto. Un ascolto senza pregiudizio ci regala subito la sensazione del capolavoro e non solo per la discografia della SUMMER. Parte l’attacco e il 4/4 della batteria, sparata, rende impossibile stare fermi, ma già si sente un suono schietto, una punta di forza e di verità che poi si apre a ventaglio in una follia che unisce l’occidente all’oriente, un punto zero per tutti i mostri sacri del Rock del prima e del dopo.

Un giro di chitarra elettrica, quasi bandito dalla disco precedente tutta violini e ghirigori, che sembra volerci dire: “Hey sono ritornata, sono di nuovo quì, anche la Queen of Disco per raccontarci qualcosa di Hot Stuff ha bisogno di me! ”. E poi sotto incalzante un tappeto electro-disco, gelido, invasivo, avvolgente: ma che razza di genere è mai questo? Dopo Hot Stuff, che è un evergreen che ha fatto di un gruppo di disoccupati, i California Dream Man, la traccia che dà il titolo all’album, Bad Girls, il passaggio delle due tracce è in pieno stile Donna Summer, una disco Suite, mixati insieme, come tre dei quattro lati del doppio album.“Bad Girls talkin about Sad Girls” : tema sociale ma su pum-pum-pum-pum. Ma che fa Donna, si mette a fare la femminista !? Ma non era una bambolona sexy? E giù con una canzona infuocata, discofunky, frenetica, ipnotica e travolgente. A chiudere la Side One del vecchio vinile Walk Away, electro-raffinatezza incalzante. Ma chi c’è qui? C’è una che canta bene, porcaloca! C’è una diva che ha incantato la platea della notte degli Oscar, c’è quella che si intreccerà in No More Tears, duetto con Barbra Streisand, e c’è soprattutto una voce potente e luminosa con uno degli acuti più lunghi della storia, in apertura della Side Two, con Dim All The Light, pezzo perfetto per Donna Summer perchè lei lo aveva scritto per Rod Stewart, un classico della sua discografia perché parte lento e si sviluppa esplodendo.Prosegue la suite fuori da ogni canone di classificazione con Jorney To The Center Of Your Heart, un’invenzione disco’n’roll irresistibile ed ironica.

Poi, colpo di scena, back into the future, nella Side Three, la songwriter Donna si cimenta in pezzi nuovi, con le sonorità della premiata ditta Moroder/Summer/Bellote ma che partono dai generi storici: dal blues, allo spiritual, dal country (elettronico?!?! ancora incompreso) alle rock ballads per finire con un titolo che sa di premonizione, un pezzo meraviglioso e meravigliosamente non capito, un oggetto volante non identificato: My Baby Understands.Donna SUMMER canta come la Gran Maestra di tante che verranno dopo. Bad Girls è un album che contiene 15 tracce di pura sperimentazione, come a dimostrare che la Disco, che gli esperti dicono nata per gli imbecilli, aveva fatto diventare imbecilli gli esperti: Grammy Award per: “Hot Stuff” (Best Female Rock Vocal Performance), la canzone “Bad Girls” nominata per  Best Female Pop Vocal Performance e  Best Disco Recording. “Dim All the Lights” nominata per  Best Female R&B Vocal Performance e l’Album nominato per Album of the Year.

SPARKS

I fratelli Mael di Los Angeles nel 1974 hanno alle spalle già due dischi, ma la loro anarchica tendenza a ricominciare tutto daccapo a ogni album, a partire dai componenti della band e dai produttori, non riesce a dare loro una collocazione comprensibile. Con “Kimono My House” gli Sparks diventano questo: glam rock allo stato selvaggio, pop operistico, Zappa elevato alla seconda e fatto melodia, vaudeville rock, psichedelia cabarettistica, genio incontrollato. La musica è travolgente: la chitarra di Adrian Fisher passa da assoli hard-core a rifiniture melodiche minimali, il basso di Martin Gordon è potente e febbrile, la batteria di Dinky Diamond è semplicemente selvaggia, le tastiere di Ron alternano sonorità orchestrali a nenie filastroccanti e giocose, distendono sotto ogni brano un assurdo e labirintico reticolo di note. L’effetto è stordente, pur nella semplicità e nella grezzezza del materiale usato. Basti ascoltare il finale ossessivo diEquator (vero pezzo di genio del disco). Alla fine del brano, dopo sovrapposizioni folli, gli elementi si riducono a tre: sembrano la voce di una donna isterica, un sax e un coro femminile, ma in realtà sono la voce di Russell, il mellotron di Ron e la voce di Russell velocizzata. Voilà. Con il contorno degli altri strumenti sembra di ascoltare un blues rock da caffé concerto anni trenta. Sembra Zappa calato in una sagra bavarese. “Talent Is An Asset”, con lo xilofono a rifare il verso alla voce sopra un ritmo vorticoso, è trascinante. “Here In Heaven” ha un’atmosfera melodrammatica dietro una linea vocale da ottovolante.

Il fatto è che il camp degli Sparks non pregiudica l’ascoltabilità dei loro pezzi: messe da parte le singole follie, “Kimono My House” è un disco rock terribilmente riuscito. E lo dicono l’atmosfera più orecchiabile di “Amateur Hour”, l’aria crucca di “Hasta Manana Monsieur” (e il melting pot è completo), la tastiera da manicomio di “This Town Ain’t Big Enough For Both of Us”, la canzone degli Sparks per eccellenza: una chitarra squarciante, una voce bizantina, una batteria possente. Rifatta con i Faith No More a più di vent’anni di distanza ha dimostrato di nuovo la sua genialità.

ANDREA TRUE CONNECTION

The Andrea True Connection pubblica il suo primo singolo nel 1976. Con More, More, More – che è anche  il titolo  dell’album – la cantante Andrea True conquista le classifiche disco di tutto il mondo.

L’ultimo disco su 12 pollici della Buddah, “More, More, More” delle Andrea True Connection che sembrano la riserva delle Silver Convention con voci turbanti e sexy a porre la fondamentale domanda “Come ti piace fare l’amore?”… è una canzone con poca profondità e vero carattere  ma che mi è cresciuta dentro (e a quasi chiunque altro a cui ho parlato questa settimana) a ogni nuovo ascolto. In effetti, è incredibilmente deliziosa e orecchiabile tanto che mi sono ritrovato a canticchiarla per strada dopo solo due ascolti e molto prima di decidere se mi piacesse. Così veniva recensito il primo singolo di Andrea True Connection sulle pagine di Record World nella rubrica The Disco Files da Vince Aletti (The Disco Files 1973-1978 – New York’s underground, week by week – DJhistory.com 1998 – edizione italiana Key Note Multimedia).

Andrea True arriva a New York da Nashville, è un’attrice di film per adulti. Alla disco ci arriva per caso spinta dal produttore Gregg Diamond già attivo con gruppi suoi come Bionic Boogie e con alcuni grandi nomi della disco come George McCrae per cui produsse l’album Diamond Touch.

A produrre ed arrangiare il primo album di Andrea True Connection è proprio Gregg Diamond che scrive anche tutte le canzoni ed in alcune di esse suona la batteria.

More, More, More – pubblicato nel 1976 dall’etichetta  Buddha Records, contiene cinque canzoni, tutte di media lunghezza e quindi molto “DJ friendly”. 

Tutti i brani sono firmati “A Tom Moulton Mix” con il missaggio effettuato nei prestigiosi Sigma Sound Studios di Philadelphia. 

Ad aprire l’album è il brano Party Line realizzato anche come singolo insieme alla celeberrima More, More, More.

Entrambe le canzoni si piazzano ai primi posti della classifica disco americana.

Fill Me Up-Heart To Heart(di cui c’è anche la versione di Caress) e Call Me sono le canzoni migliori dell’album anche senza aver ottenuto il grande successo dei due singoli già citati.

Altro brano contenuto nell’album è Keep It Up Longer che però rimane un po’ nell’ombra anche perché oscurato dalla notorietà dei brani precedenti.

Scritto da: admin

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