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“Venerdì in Vintage”-DJAngelino

today12 Maggio 2023 6

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HUMAN LEAGUE

Gli Human League nascono a Sheffield nel 1977 dai due programmatori Martyn Ware e Ian Craig Marsh che dopo aver creato i Future arruolano il cantante Phil Oakey, dall’aspetto irresistibile e dalla voce baritonale, e Philip Adrian Wright che si occuperà dell’aspetto visivo della band. Patiti dei Roxy Music e soprattutto di Brian Eno e della filosofia «tutti possono fare musica, basta avere un sintetizzatore», nelle prime prove discografiche sono devoti a un minimal synth marziale che non disdegna cantati melodici sempre sul filo del rasoio tra il pop e i fumi di una fabbrica del futuro. Capolavori in questo senso sono la delirante Empire State Human o l’epica Being Boiled contenuti nei loro primi dischi Reproduction e Travelogue. Testi ispirati a film di serie Z e letteratura fantascientifica, influenze dettate dai deliri Arancia meccanica di Kubrick (da cui il titolo di un EP strumentale e altamente sperimentale, The Dignity of Labour, che è una frase scritta sul muro davanti casa dei genitori dell’Alex del film), atteggiamento di chi non ha intenzione di cedere il fianco al nichilismo punk. Anzi, con un’altissima dose di autoironia, nel sangue della band scorre il desiderio di liberare la giovane classe operaia inglese da una condizione di perenne depressione. Gli Human League si pongono sulla scena alzando la testa con orgoglio proletario verso la musica da ballo (non a caso rivendicheranno influenze disco rivolgendosi con queste parole al loro pubblico di new waver: «Noi siamo gli Human League e siamo più furbi di voi») e quindi lontani dall’atteggiamento wannabe di certe tendenze autolesioniste o snob. Nonostante questo, il sound della band è ancora ostico e legato alle suggestioni della tradizione industriale (nel senso di attività economica) di Sheffield. E poi succede qualcosa di strano. Dare, il disco del successo, arriva quando gli Human League si spaccano per divergenze artistiche e di base per una differente concezione di cosa significa musica pop. Una parte, quella più militante e politicizzata del duo fondatore Ware e Craig, fonderà i B.E.F. e più avanti gli Heaven 17 (anche qui una citazione da A Clockwork Orange), che troveranno il successo commerciale molto più tardi cercando di far passare slogan e concetti anticapitalistici.

Gli Human League continueranno con Oakey e Wright in una specie di nichilismo attivo ed edonista sempre in salsa prolet e, in un certo senso, faranno un vero e proprio miracolo da working class heroes. Perché con Dare, in effetti, si sdogana un sottogenere del sottogenere: la minimal synth. Spesso ed erroneamente associata alla minimal wave che è caratterizzata comunque dall’uso di sintetizzatori, questo stile si basa sì su tale strumentazione, ma con obiettivi sperimentali, con un suono particolarmente DIY, sporco, e con un’assoluta allergia a qualsiasi produzione patinata. Con questo album gli Human League riescono a trasformare uno stile particolarmente avanguardistico e di nicchia – anzi, proprio qualcosa di DIY e semi inascoltabile – in un prodotto di alta classifica. Come sia possibile è chiaramente un mistero dei tempi. Il duo Oakey-Wright a malapena sa qualcosa di musica (uno relegato al ruolo di cantante, l’altro di grafico). In assenza dei loro soci, la vera forza creativa della band, devono reinventarsi musicisti con una forza titanica per cui sì, magari è vero che tutti possono diventare musicisti con un synth in mano, ma senza un produttore serio probabilmente non possono sbancare in classifica. E qui entra in gioco Martin Rushent, che con le sue programmazioni e la sua chiara visione sonora trasforma la confusione di alcune demo musicalmente raffazzonate in una pietra miliare il cui successo non è ancora chiaro neanche a lui. Dare poteva tranquillamente essere una schifezza e la fine assoluta degli Human League, che invece grazie all’album cavalcheranno l’onda per un bel pezzo rimanendo nella storia. E paradossalmente, con la loro line up più debole di sempre. Ascoltando oggi Dare ci si rende immediatamente conto della grande influenza che il disco ha avuto sull’electroclash e in generale su tutta la musica synthpop e hyperpop che verrà. Nello stesso tempo non sembra così commerciale come si potrebbe pensare rispetto a una produzione odierna. La band è comunque grezza, tecnicamente non va da nessuna parte e le demo dimostrano che c’è più aderenza a un tipo di synth punk estremo che non a un discorso di massa alla quale vendere intrattenimento e sogni. Forse proprio grazie a questo “colore” che si pone nel limite assoluto tra niente e tutto, gli Human League appaiono veri e non un prodotto costruito a tavolino. I pezzi del disco, nonostante l’innegabile tensione verso la classifica, appaiono spesso rozzi, nettamente figli di una new wave incarognita della quale la voce non educata di Oakey rimane un simbolo di rottura. Tanto è vero che quando sarà il momento di registrare Crash, l’album con la hit Human che nel 1986 li riporterà quasi ai vecchi fasti commerciali, i produttori Jimmy Jam e Terry Lewis sostituiranno tutti i musicisti del gruppo con dei turnisti, disgustati dalla loro incapacità (e non contenti saranno anche gli autori di Human). Dare rappresenta perciò una mosca bianca: è gente che cerca di fare pop e ne è incapace, eppure riesce a cogliere nel segno in virtù di questa incapacità che esprime una forte tensione, quella del desiderio di futuro, di nuovo.

“Venerdì in Vintage”

RICK ASTLEY

’50’ arriva a un decennio dal suo ultimo album, ma che dire: il cantante di ‘Never Gonna Give You Up’ c’è ancora, e non è neanche male Rosso Buonpelo, sorriso d’ordinanza e mossette impacciate ad accrescere i punti simpatia: ricordiamo il buon Rick per le hit Never Gonna Give You Up – soprattutto –, Whenever You Need Somebody e Together Forever. Il pop britannico mainstream stava abbandonando la coda lunga della post-wave chiaroscurale della prima metà degli ’80 per assestarsi su canzoni solari con un occhio al dancefloor capeggiato dai produttori Stock, Aitken & Waterman (praticamente una specie di Ramones in chiave aziendalistica: una sola canzone ripetuta in mille guise. Per mille interpreti: formula vincente non si cambia), esplosi con i Dead or Alive, ma fautori occulti della colonna sonora delle vite di mezz’Europa nel biennio 1987–88. Impossibile anche solo immaginare l’esistenza di un programma come Deejay Television senza il marchio di fabbrica sonoro imposto dal trio britannico.

Rick ci metteva naturalmente il suo: vocione morbido e rassicurante che intonava candidi testi su lealtà e vero amore. Madonna era uscita l’anno prima con True Blue, inaugurando l’ennesimo e non ultimo revival degli anni ’50, nel quale Rick s’inseriva perfettamente come un novello Tom Jones nel ruolo del bravo ragazzo di un musical: jeans, camicia abbottonata al collo, Ray-Ban e acconciatura timidamente teddy-boy.

Poi il silenzio, finché non si è trasformato in un meme – rickrolling, scherzo in cui contenuti seducenti linkano al video del primo singolo di Rick – che l’ha riportato in auge.

Ed eccolo rinato con il successo dell’album 50 (2016), uscito un decennio dopo il precedente, e che dire: le canzoni ci sono, meglio sarebbe stato evitare le tentazioni trap plasticose di Shivers e concentrarsi sul country-pop di Chance to Dance e Last Night on Earth o sulla Broadway di Every Corner e I Need the Light. Il potenziale radiofonico non latita. Che dire: ride bene chi ride ultimo. Soprannominato anche il piccolo uomo dalla grande voce.

“Venerdì in Vintage”

SCOTCH

C’era un tempo, attorno alla metà degli anni Ottanta, in cui una manciata di musicisti italiani aveva lanciato un genere che ha fatto ballare tutta l’Europa, poi ribattezzato Italo Disco. Quei momenti, a distanza di oltre trent’anni, stanno prepotentemente tornando alla ribalta, anche se più Oltralpe che in Patria. All’interno di questo affascinante panorama musicale si staglia la figura di uno dei massimi esponenti del genere: il palazzolese Vincenzo Lancini, leader degli storici Scotch – sulla cui storia straordinaria è stato anche girato un documentario, premiato al concorso di cortometraggi Palashort nel 2017. Abbiamo incontrato Vince – così come lo chiamano tutti – nella sua casa, tra dischi celebrativi affissi alle pareti e le fotografie di quella stagione formidabile, unite a quelle più intime e familiari. Già, perché il segreto di questo maestro della musica anni Ottanta, che ancora oggi gira il mondo proponendo un genere che unisce le generazioni di appassionati, risiede anche qui, nella sua Palazzolo, accanto alla moglie Chiara e alle figlie. Ora, diventato nonno, Vince gioca coi suoi 64 anni con lo spirito di un ragazzino che continua ad emozionarsi per la vita, per l’arte e la musica.Nel 1976 con alcuni amici palazzolesi abbiamo fondato il gruppo jazz-rock Gyzah, attualmente ancora in attività. Io nasco come bassista e cantante, ma nei primi anni Ottanta avevo un negozio di dischi e gli Scotch sono nati in brevissimo tempo sull’onda del grande spirito di sperimentazione di quegli anni.  All’epoca suonavo tutt’altro: ero influenzato dal prog rock e da gruppi come Kansas, Rush e Led Zeppelin. Poi, nel 1983, un fornitore passato in negozio mi ha dato un pezzo strumentale e mi ha chiesto se conoscevo qualcuno che poteva scrivere un testo e cantare su quella base, che diventò Penguins’ Invasion. Gli ho detto che lo potevo fare io e in pochissimo tempo, quasi per caso, mi sono ritrovato in studio di registrazione a Milano insieme a Fabio Margutti, col quale è iniziato un sodalizio straordinario con la formazione degli Scotch, seguito negli anni da tour in tutta Europa e da ben sette dischi d’oro. In pochissimo tempo vi siete trovati sui palchi di tutta Italia e soprattutto d’Europa. Quanti momenti incredibili hai vissuto?
Beh, moltissimi! Vi racconto un aneddoto. Un giorno stavamo rilasciando un’intervista ad un giornalista svedese, dal quale abbiamo scoperto che ogni nostro singolo in Svezia aveva raggiunto il primo posto in classifica: ne è seguito un tour di un mese proprio in quella magnifica terra. Una sera ci dicono che avremmo dovuto spostare il concerto per non sovrapporci con un’altra band, gli Europe, che non erano solo svedesi, ma in quel momento all’apice del successo ovunque nel mondo. Per scherzare, ho detto che lo avremmo spostato, ma che avrei voluto essere in prima fila al loro concerto. Gli organizzatori hanno mantenuto la promessa, ma è successo qualcosa di ancor più straordinario: gli Europe hanno voluto essere in prima fila al nostro. Magnifico!
In quegli anni eravamo sul palco con grandissimi artisti, partecipavamo a trasmissioni televisive e premiazioni con accanto Depeche ModeEurythmicsJohnny Hallyday e tanti altri grandi nomi.

Nel 1984 siamo pure finiti sul palco della finale di Festivalbar all’Arena di Verona. Quando ci hanno presentato nessuno aveva capito chi fossimo, ma quando abbiamo cominciato a suonare tutti ci hanno riconosciuto: è stata un’emozione impensabile.

Che cos’è per te l’Italo Disco?
Chiariamo subito che l’Italo Disco è un genere molto preciso che si basa su sonorità ben riconoscibili. A volte sorrido quando indicano gli Scotch come il più importante gruppo del genere, perché in realtà noi abbiamo sperimentato molto. Nei nostri pezzi ci sono anche chitarre (all’epoca bandite nel genere) ed effetti sonori particolari, talvolta anche bizzarri, come la mia tosse campionata nel brano Disco Band. Noi italiani vendevamo tanto all’estero, ma non solo noi: anche altri nomi che hanno fatto storia, come P. Lion e Ken Laszlo. L’epoca d’oro è durata circa sei, sette anni: dal 1989 in poi anche noi abbiamo preso altre strade.

Arriviamo al 2004. Tutto sembra finito, ma da un momento all’altro un vostro pezzo diventa un tormentone estivo. Com’è successo?
Noi non lo sapevamo neanche! Un gruppo dance italiano, i Paps’n’Skar, aveva rifatto la nostra Mirage, il cui ritornello («Stasera la luna ci porterà fortuna», Ndr) era perfetto per la promozione Le Lune che la TIM aveva proposto quell’estate. La loro versione era pure molto bella! Grazie a loro anche le nuove generazioni conoscono quel brano, ancor oggi la passano in radio. Insomma, per noi è motivo di orgoglio.

“Venerdì in Vintage”

Scritto da: Roberto

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