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“Venerdì in Vintage”-DJA

today23 Settembre 2022

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DJAngelino

Kim Carnes

Per tutti gli anni settanta non lascia molte tracce di sé nelle classifiche di vendita statunitensi ma all’inizio degli anni ottanta prende due scelte decisive: quella di dedicarsi alla canzone sentimentale in collaborazione con il marito Dave Ellingson e quella di mettere la sua voce roca al servizio di una cover in cui non aveva creduto subito, e che diventerà invece il suo successo mondiale: Bette Davis Eyes, scritta nel 1975 da Donna Weiss e Jackie DeShannon e incisa nel 1981. Trascurata prima di allora, la canzone acquista nuovo interesse grazie al decisivo intervento di Bill Cuomo, che crea appositamente per il brano un nuovo arrangiamento. Numero uno negli USA, e ai primi posti in Europa, la canzone vince il Grammy Award del 1982 per il singolo dell’anno, trainando al successo l’album Mistaken Identity. Dopo la hit Bette Davis Eyes, la Carnes ricevette i ringraziamenti personali dalla  stessa Bette Davis.

Negli anni successivi ha inciso altri brani di sicuro interesse, comparendo anche nella colonna sonora di Flashdance (1984), dal film omonimo Flashdance, con il brano I’ll Be Here Where the Heart Is. Sempre nel 1984, duetta con la cantante, Barbra Streisand, nel brano Make no Mistake (He’s Mine), che venne inserito nel disco di duetti della Streisand dal titolo, Duets del 2001. Una cover della canzone venne incisa tre anni dopo in versione maschile, quando Kenny Rogers registrò il duetto in coppia con Ronnie Milsap. La canzone adattata al maschile venne ribattezzata, Make no Mistake (She’s Mine).

Tra il 1983 ed il 1986 ha piazzato altri singoli di un certo successo, nell’ordine: You Make My Heart Beat Faster (1983), Invitation to Dance (1985), Crazy in the Night (1986). Nel 1985 ha partecipato inoltre al progetto USA for Africa insieme ad altri numerosi artisti, nel brano We Are the World.

ùLontana dal grande pubblico, ha poi proseguito la sua carriera dedicandosi principalmente a progetti per il cinema e la televisione. 

Paul Antony Young

(Luton, 17 gennaio 1956) è un cantante britannico di musica pop rock e, soprattutto, soul, più correttamente delle varianti occidentali note come white soul e blue-eyed soul, con una spiccata propensione per brani disco ballabili e romantiche ballate sentimentali.

La tonalità di molti brani è caratterizzata, inoltre, da un uso esteso del falsetto, in particolare all’inizio della carriera solista, nel periodo 1983-1986, particolarità poi quasi del tutto perduta per un grave problema alle corde vocali.

Young fu anche chitarrista e bassista, prima di iniziare la carriera solista nel 1983, ed ha collaborato con i gruppi musicali Kat Kool & The Kool Kats e Streetband. Ha inoltre fatto parte dei più noti Q-Tips, di cui è stato a lungo il cantante solista.

Non va confuso con l’omonimo cantante Paul Young che, prima della sua morte, è stato un membro dei Sad Café e della seconda band del chitarrista e bassista dei Genesis Mike Rutherford, Mike and the Mechanics.

Paul è nato a Luton, in Inghilterra. Ha un fratello maggiore, Mark, e una sorella minore, Joanne. Finita la scuola, la Ashcroft High School di Luton, inizia a lavorare nella fabbrica della Vauxhall Motors e, nel tempo libero, suona il basso e la chitarra in diversi gruppi musicali. La primissima band di cui diventa il cantante solista sono i Kat Kool & The Kool Kats. Negli anni settanta, entra nel gruppo Streetband, con cui ottiene un successo nella Top 20 britannica, con una traccia esilarante, intitolata Toast, che raggiunge il Numero 18 nel 1978.

Nel dicembre del 1979, la Streetband si scioglie e Young forma i Q-Tips, che conquistano una certa fama come live band, ma non ottengono alcun successo di classifica nel Regno Unito, anche se il singolo Letter Song diventa un successo minore nell’Europa continentale.

I Q-Tips si separano nel 1982 e Paul Young firma con la CBS come solista. I suoi primi due singoli, Iron Out the Rough Spots ed un remake di Love of the Common People, non hanno successo, ma il terzo, una cover del classico di Marvin Gaye intitolato Wherever I Lay My Hat (That’s My Home), diventa Numero 1 in Gran Bretagna, dove resta per tre settimane, nell’estate del 1983: sarà il primo di 14 singoli ad entrare nel Top 40 britannico.

Simile successo ottiene l’artista in tutta Europa. Nella madrepatria, il secondo singolo, Come Back and Stay, raggiunge il Numero 4, mentre una ristampa di Love of the Common People arriva fino al Numero 2. L’album di debutto, No Parlez, ottiene il disco di platino in diversi paesi. Paul Young ha incontrato sua moglie, la modella Stacey Smith, sul set della versione britannica del videoclip per Come Back and Stay, nel 1983. Nel mese di maggio del 2006, la coppia ha annunciato la separazione. I due hanno tre figli: due femmine, Levi (nata nel 1987) e Layla (nata nell’agosto del 1994), e un maschio, Grady-Cole (nato a gennaio del 1996).

HEAVEN 17

Nati agli albori della new wave da una costola degli Human League, gli Heaven 17 hanno tradotto la lezione industrial della scuola di Sheffield in una formula pop originale, fatta di canzoni orecchiabili, soul e groove danzerecci, arricchendola di elementi tipici del funk bianco. Tra satira, sperimentazione e impegno politico, ecco spiegata la differenza tra elettronica facile e musica d’autore. “Once there was a day we were together all the way…”. Ian Marsh, Martin Ware e Adi Newton tutti insieme nei Future, poi Phil Oakey e gli Human League, infine Glenn Gregory e gli Heaven 17: accade a Sheffield, South Yorkshire, intorno al 1977. Giorni di punk, rivolta e guerriglia culturale, la capitale industriale del Regno Unito del resto non ha molto da offrire visto l’aggravarsi della crisi del settore siderurgico, motore unico della catena di produzione e abbrivio all’esistenza per la comunità del posto. Distruzione ma anche semina, rinascita, avanguardia e sperimentazione. Ondarock / pop muzik / Heaven 17

“Once there was a day we were together all the way…”. Ian Marsh, Martin Ware e Adi Newton tutti insieme nei Future, poi Phil Oakey e gli Human League, infine Glenn Gregory e gli Heaven 17: accade a Sheffield, South Yorkshire, intorno al 1977. Giorni di punk, rivolta e guerriglia culturale, la capitale industriale del Regno Unito del resto non ha molto da offrire visto l’aggravarsi della crisi del settore siderurgico, motore unico della catena di produzione e abbrivio all’esistenza per la comunità del posto. Distruzione ma anche semina, rinascita, avanguardia e sperimentazione.

L’uomo e la macchina, l’uomo è la macchina: Martyn Ware (Sheffield, 19 maggio 1956) se ne procura una con i primi risparmi da programmatore di computer, un Korg 700 a tastiera monofonica e inizia a muoversi nell’elettronica, innamorato di Motown, glam rock e pure dei Kraftwerk. L’approccio alla musica di Ian Craig Marsh (Sheffield, 11 novembre 1956) invece è decisamente meno tranquillo: anche lui cresce nel grigiore plumbeo tra fumi di acciaierie e rumori di fabbrica, e per scacciare i fantasmi dell’eco-mostro si mette a frequentare la piccola compagnia di teatro “Meatwhistle”. Qui impara a suonare la chitarra e stringe amicizia con un certo Mark Civico, insieme al quale fonda una sorta di art-gang, che prova a richiamare attenzioni su di sé attraverso performance incendiarie e spericolate ai limiti dell’autolesionismo (sul palco parlano di necrofilia e masturbazione mentre pogano, sgomitano e si autoinducono il vomito, qualcosa a metà strada tra Alice Cooper e Fad Gadget), non a caso si fan chiamare Music Vomit, epiteto ributtante che ricavano dalla lettura di un articolo non proprio lusinghiero a proposito dei Suicide (così additati dalla stampa locale).

L’esperienza però dura poco, dato che Marsh viene presto espulso dalla scuola in quanto ritenuto elemento “sovversivo” e indesiderato. Civico allora si dà una calmata e prosegue con altri ex-compagni della Meatwhistle, Paul Bower, Ian Reddington e l’aspirante fotografo Glenn Gregory (scrivono l’opera rock “Vomit Lost In Space” e la mettono in scena allo University Drama Studio e alla Burngreave Church Hall con l’aiuto di alcune guest occasionali, allo stylophono saltuariamente lo stesso Martyn Ware che in quei giorni si sta facendo le ossa con gli Underpants).
La combriccola si scioglie definitivamente dopo una serata da incubo al Bath Arts Festival del 1974, dove vengono accolti a bottigliate e fischiati dalla folla disgustata. Sembra apprezzarli la sola Mary Joan Elliott-Said aka Poly Styrène (leader degli X-Ray Spex) che è seduta tra il pubblico e li applaude come “prima vera punk band”.
A questo punto il percussionista/back vocalist Ian Reddington lascia e se ne va a studiare alla Royal Academy of Dramatic Art: lo attende un dignitoso avvenire da attore inaugurato nel 1986 col ruolo di Bassett in “Highlander” al fianco di Christopher Lambert (nel suo curriculum anche tanta televisione, teatro e alcuni inni per lo Sheffield Wednesday Fc.). Gregory continua nella musica e si dà da fare nei 57 (con lui Jack Hues e Nick Feldman, spina dorsale degli Wang Chung), Bower, invece, si ritaglia qualche scampolo di gloria come chitarrista dei 2.3 Children (poi 2.3) e intanto arrotonda col giornalismo (cura la fanzine Gunrubber assieme ad Adi Newton). Terminata questa prima fase di gavetta, molti di loro si tengono in contatto e hanno modo di ritrovarsi, Marsh difatti ha messo la testa a posto e trova impiego anch’egli come programmatore, così acquista un sintetizzatore e richiama Ware e Adi Newton per suonare alla festa del ventunesimo compleanno di un amico comune, che da queste parti vale la maggiore età. Si presentano come Dead Daughters e propongono la sigla della serie tv “Doctor Who”, oltre a cover del primo disco dei Ramones. La cosa li diverte parecchio e man mano ci prendono gusto a tal punto che decidono di fondare The Future, pop-band a strumentazione solo elettronica che nel 1977 è ancora qualcosa di difficilmente concepibile per gli standard contemporanei e, appunto, davvero “futurista”.

I prezzi delle apparecchiature calano e diventano più convenienti per il consumatore medio, Newton compra un Roland System 100 e un software chiamato CARLOS che converte le parole inserite in testi così da tramutare l’artificio in realtà, ma non trova compagnie disposte a finanziare l’idea e abbandona il gruppo per tentare qualcosa di più estremo ed esoterico con la sua creatura Clock Dva (gli esordi “White Souls In Black Suits” e “Thirst” sono più affini al “Mix-Up” di free-jazz, psichedelia e rumorismo dei vicini di casa Cabaret Voltaire o dei Throbbing Gristle che non all’estetica cyber-punk con cui negli anni a venire il man amplified di “Advantage” e “Buried Dreams” si farà largo).
La parentesi The Future si dissolve in una manciata di demo archiviati in formato cd una ventina d’anni dopo nella docu-raccolta “The Golden Hour Of The Future” (che nel 2002 scava alle radici del sound di Sheffield tramite le early version di “Being Boiled”, “Toyota City” ,”Circus Of Death” e altri reperti storici setacciati da Richard X). Ware e Marsh adesso pensano a mettersi in regola e cercano più un vocalist che un terzo sintetizzatore per sostituire Adi, dato che ogni label interpellata pare scettica nei loro confronti vista la mancanza di un frontman vero e proprio, ma la prima scelta Glenn Gregory si rende purtroppo irreperibile in quanto impegnato con i 57, dunque ripiegano sul fascinoso Phil Oakey, portiere di notte del Thornbury Annex Hospital e loro vecchio compagno di scuola che non ha alcuna esperienza in merito se non qualche velleità da sassofonista, ma in compenso si porta dietro una fitta rete di rapporti sociali e appeal da popstar consumata costruito su capigliatura eccentrica e vestiario alla moda.
Le due menti partoriscono il breve strumentale “Dancevision” e subito dopo “Being Boiled”, battesimo dei neonati Human League, che per il nome si rifanno al videogioco “Starforce: Alpha Centauri”, dove la Lega Umana è una frontiera di Umanoidi che nel 2415 d.C. lotta per la propria indipendenza dal Pianeta Terra (la prima traccia si può trovare sull’Ep “Holiday ’80”, la seconda sancisce l’entrata di Oakey nella band).
Strappano un contratto grazie all’intervento dell’ex-collega Paul Bower, che li presenta ai discografici della sua band 2.3, così escono in sequenza su etichetta Fast Records “Reproduction” (1979) e “Travelogue” (1980), registrati negli studi Monumental Pictures: “One day all the music will be made like this”, sentenzia il primo profetico verso di “The Black Hit Of Space” e non ci va lontano, gli album difatti sono entrambi a loro modo epocali per lo sviluppo del movimento synth-pop di cui gli Human League sono pionieri acclarati (persino gli Undertones li citano in “My Perfect Cousin”, “His mother bought him a synthesizer/ got the Human League in to advise her/ now he’s making lot of noise/ playing along with the art school boys”).

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