Molti di voi, ascoltando Guardian Angel negli anni 80, si saranno chiesti: ma chi è che canta dietro a quella maschera? Oggi ve lo spiego! Si tratta infatti di Drafi Deutscher, cantante e produttore tedesco già molto famoso nei Paesi nordici, che in tutta la sua carriera ha pubblicato oltre 30 album scrivendo anche oltre 200 canzoni per altri cantanti, oltre 200. Estremamente prolifico sia in senso musicale che in senso… anagrafico: in carriera si è fatto chiamare con più di 40 pseudonimi tra cui Dr. Deutscher, Mr. Walkie Talkie, Erus Tsebehtmi, Jack Goldbird, Kurt Gebegern, Lars Funkel, Dave Bolan… Ma torniamo al 1983, quando sotto il nome di Masquerade, Deutscher pubblica “Guardian Angel” (angelo custode), un lento da pomiciata che ottiene successo anche da noi in Italia, tanto da venire aggiunto dalla Baby Records nell’immancabile raccolta Mixage (o forse proprio per quello…).
Oltre alla versione originale in inglese ricordiamo anche la versione italiana, “La Valle dell’Eden”, e la tedesca “Jenseits von Eden”, eseguita dall’italo-tedesco Nino de Angelo, e una versione in francese del 1984 “A l’est d’Eden” di Vicky Leandros. Tutte però raccolgono meno successo dell’originale che si posiziona primo in Austria, secondo in Svizzera e Germania, ma anche da noi in Italia si piazza in quell’anno al numero 46.
Dal video della canzone si nota però che i Masquerade erano due! Inizialmente si pensava che fossero Drafi e Nino, ed ecco il mistero sui Masquerade… in realtà i due cantanti erano due attori, che non cantavano, e in entrambi i casi la voce era solo quella di Drafi, che non voleva che la gente lo riconoscesse.
Quindi avete capito chi cantava, ma dietro alla maschera non sappiamo ancora chi si nascondesse…
PHD
Il 28 settembre 1951 nasce a Glasgow, in Scozia, Jim Diamond, uno dei più eclettici e sorprendenti personaggi del rock degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta. Jim scopre la musica grazie al fratello maggiore, Lawrence, batterista e a sedici anni è già musicista a tempo pieno. Nel 1975 entra per la prima volta in uno studio di registrazione con i Bradley e due anni dopo pubblica l’album Bandit con la band omonima, in quel periodo composta, oltre che da lui, dal chitarrista James Litherland, dal bassista Cliff Williams e dal batterista Graham Bond. Successivamente canta nella band di Alexis Korner, con cui realizza nel 1978 l’album “Just easy” poi cambia paese e stile. Se ne va a Los Angeles, dall’altra parte dell’oceano, per formare un gruppo heavy con Carmine Appice, ex batterista dei Vanilla Fudge e di Rod Stewart, e con Earl Slick, ex chitarrista di David Bowie. All’inizio degli anni Ottanta torna in Gran Bretagna deciso a impegnarsi solo nella composizione e nella produzione. Se ne sta tranquillo per poco. Nel 1982, infatti, forma il duo dei PhD con il tastierista Tony Hymas, pubblicando un album e un paio di singoli di successo.
La sua proverbiale irrequietezza non gli consente di godere a lungo dei risultati raggiunti. Colpito da un’epatite che lo costringe a cancellare il tour promozionale dell’album Is it safe? scioglie i PhD e decide di continuare da solo. In due anni raggiunge i migliori risultati di tutta la sua carriera. Nel 1984 pubblica l’album Double crossed e arriva al vertice della classifica britannica con il singolo I should have know better, confermandosi l’anno dopo con Hi-ho silver. Sempre nel 1986 partecipa al progetto dei Crowd, un gruppo di cinquanta popolari musicisti riunitisi per incidere il brano You’ll never walk alone il cui ricavato va alle famiglie degli spettatori morti nel 1985 nello stadio di Bradford. È l’ultimo sussulto. Da quel momento preferisce continuare come autore e produttore. Muore a Londra l’8 ottobre 2015.
Easy Going
Se alla fine degli anni Settanta foste capitati di notte in Piazza Barberini a Roma, vi sareste imbattuti in un piccolo ma affollato club seminascosto nella salita di Via della Purificazione, un locale di tendenza gay dagli eleganti arredi fassbinderiani, ma anche crocevia notturno di tantissimi personaggi di spicco nella vita culturale ed artistica della Capitale e tappa fissa dei DJ nazionali più conosciuti all’epoca. Dalla conoscenza dei proprietari Gilberto e Beatrice Jannozzi con due personaggi come Claudio Simonetti (figlio del maestro Enrico e co-fondatore dei Goblin) e Giancarlo Meo (produttore) nacque la creatura Easy Going, nome omaggiante il locale di cui sopra. I due decisero di unire le loro cognizioni musicali per creare musica dance che fosse lo specchio sonoro in cui riflettere quel momento particolare di tendenza culturale: il riflusso stava rimpiazzando l’impegno sociale e la febbre del sabato sera aveva contagiato i dancefloor nostrani già un anno prima. Inoltre i producer italiani andavano forte anche oltreoceano (Mauro Malavasi docet) per cui fu possibile per loro contare su produzione e collaboratori che garantissero un sound in grado di aprire scenari commerciali più vasti
L’esordio a 33 giri omonimo del 1978 non lascia spazio a dubbi sulla provenienza gay-disco del progetto: pubblicato su etichetta Banana Records (fondata dallo stesso Giancarlo Meo) ha in copertina un mosaico di lotta maschile tra un marinaio e un poliziotto rigorosamente nudi, fotografato nel club romano. Gli amici canadesi stranamente gli preferirono una più “sobria” copertina che immortalava le facce della band: Paul Micioni (all’anagrafe Paolo Micioni, nonché il resident DJ dell’Easy Going di allora) accompagnato da un paio di leopardi e due ambigui figuri vestiti in maniera non esattamente sobria, Francesco Bonanno e Ottavio Siniscalchi, DJ del Mais, altro locale romano, funzionali quanto lo sarà Mauro Repetto nei live degli 883. La musica è la cosa più importante e deflagra con il pezzo che definirà per antonomasia il gruppo: “Baby I Love You” uscita anche come primo singolo, cantata da una voce filtratissima (Paul Micioni o lo stesso Claudio Simonetti?) su un ipnotico tappeto di tastiere. Un esordio al fulmicotone.
Le bordate di fiati e la melodia accattivante fanno il resto, e non mi dite che i Daft Punk non l’hanno mai ascoltata! Un vero masterpiece della discomusic nostrana e non solo, che nell’album supera i dieci minuti con la sua versione fatta apposta per i disc jockey.
Stesso discorso per i rimanenti tre brani che occupano il resto l’album, anch’essi di minutaggio settato per la pista da ballo: “Do ItAgain” è pura dance da Studio 54, “Suzie Q” cover disco non molto originale del famoso brano dei Creedence Clearwater Revival e a chiudere il tutto il ballatone strappamutande “Little Fairy” dove, ahimè, la voce di Micioni senza effetti si dimostra una ciofeca al pari della sua pronuncia inglese piuttosto maccheronica.
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