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“Venerdì in Disco”

today3 Novembre 2023 3

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The Buggles

È un concept album di genere pop basato sul tema fantascientifico della vita nel futuro in un mondo di tecnologie sorprendenti ma anche inquietanti, ha un atmosfera futuristica grazie all’uso di strumenti che negli anni ’70 erano all’avanguardia come per esempio i sintetizzatori e la drum machine e anche il fatto di modificare la voce rendendola robotica e metallica, il titolo dell’album e il concetto in sé si presume che sia stato ispirato a: I Robot degli Alan Parsons Project del 1977. L’album si apre con “The plastic age (The living in the plastic age)” dove si parla della vita che sfugge all’individuo e della scienza che cambia il mondo (che è anche il tema centrale dell’album), “Video killed the radio star” è uno sguardo, forse dispiaciuto, per le cose che perdiamo mentre la tecnologia ci spinge avanti senza sosta, “Kid dynamo” (che ricorda quasi una sigla da supereroe) parla di un ragazzo dinamo, “I love you (Miss robot)” parla del sesso impersonale come ha dichiarato Geoffrey Downes collega del frontman Trevor Horn, ma è in fondo un dialogo d’amore fra due robot (come le voci modificate nel brano), “Clean, Clean” parla di alcune imprese di un certo Johnny, “Elstree” parla di un sogno raccontato a questa Elstree, “Astroboy (And the proles on parade)” è un brano più lento che ci fa ricordare un cartone animato di un po’ di anni fa chiamato proprio Astroboy che era un ragazzo metà uomo e metà macchina, ascoltando il brano sembra che appaia questa scena: il protagonista del brano si siede e osserva la “sfilata” di turisti che marciano attraverso la città di fronte a lui, e infine “Johnny on the monorail” racconta la metafora della vita come se fosse una rotaia che ci porta in un viaggio passivo e lungo con partenze e fermate fuori dal nostro controllo.

The Buggles: how we made Video Killed the Radio Star | Pop and rock | The Guardian

L’album venne anticipato nel 1979 dal primo e unico singolo estratto che fu “Video killed the radio star” che divenne, anche negli anni, un brano celebre e conosciuto da tutti e che all’epoca dell’uscita scalò le classifiche. Nella mezzanotte del 1° agosto del 1981 nacque la allora piccola emittente televisiva MTV che inaugurò la sua apertura e trasmesse per la prima volta il videoclip di “Video killed the radio star” (purtroppo l’album non ebbe il successo del singolo). L’album uscì in vinile e musicassetta, per poi essere stampato successivamente in cd con l’aggiunta di tre brani: “Island” (lato B di Plastic Age), “Technopop” (lato B di Clean, Clean) e una differente versione di “Johnny on the monorail” (a very different version), (successivamente uscita anche come: special person John Sinclair remix) e naturalmente venne pubblicato in digitale. La copertina vede Trevor Horn con lo sguardo verso l’obbiettivo con un microfono, lo sfondo, come tutta la fotografia è ispirato ai monitor dell’epoca come anche i colori un po’ sbiaditi e i caratteri delle scritte. È un album ad oggi ingiustamente dimenticato che va assolutamente riscoperto, è un vero e proprio viaggio futuristico diretto da Trevor Horn, da Geoffrey Downes e da tutta la loro band.

 

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Nik Kershaw 

 

Nasce a Bristol nel 1958 e si trasferisce nel 1959 ad Ipswich, dove rimarrà per quasi 20 anni e dove l’amico Russell Chesterman, grazie alla sua copia di una Gibson 335, gli farà scoprire la musica rock.
Nik lascia la scuola nel 1976, per meglio dedicarsi alla carriera musicale, e per mantenersi lavora come commesso negli anni che lo portano alla maturità. Nel frattempo continua a suonare la chitarra e a cantare in numerose band underground locali, la più famosa delle quali era una band di jazz/funk/rock chiamata “Fusion“. Quando questa band decide di separarsi nel 1982, Kershaw decide allora di dedicarsi a una carriera da cantautore solista. Comincia ad inviare demo in giro e riceve molte risposte negative, tranne una: quella di un tale “Mickey Modern“, che decide di prenderlo sotto la sua ala e di cercare un contratto per lui. Ed il contratto arriva, firmato nel 1983 con Charlie Eyre, capo della MCA records. Nik comincia allora il lavoro di produzione del suo primo disco, insieme a Rupert Hine e Peter Collins, il disco “Human Racing” vede la luce nell’estate del 1983. Contemporaneamente nel giugno del 1983 Kershaw sposa la sua fidanzata canadese di lunga data, Sheri, dalla quale ha tre figli.
Il primo singolo, il brano “I Won’t Let the Sun Go Down on Me“, raggiunge la posizione 47 delle classifiche e fa da battistrada al secondo singolo, “Wouldn’t it Be Good“, pubblicato nel Gennaio del 1984: il brano raggiunge il quarto posto nella UK Singles Chart ed ha grande successo in Europa, soprattutto in Germania, Italia, Svizzera e Scandinavia.
Il successo del singolo traina anche il secondo album di Nik, “The riddle“, pubblicato nel marzo del 1984, ed entrambi i dischi ottengono il riconoscimento del disco di platino in molte nazioni.
Nel 1985 pubblica altri tre singoli, “Wide Boy“, “Don Quixote” e “When A Heart Beats” e partecipa al Band Aid.

Autographe Nik KERSHAW

Il disco successivo, però, “Radio Musicola“, non ottiene il successo sperato e l’album dopo, “The Works” del 1989, si rivela un completo flop. A questo punto Nik decide di sciogliere il suo contratto con la MCA e si concentra sullo scrivere canzoni per gli altri, diventando compositore e arrangiatore per artisti del calibro di Chesney Hawkes, Cliff Richard, Bonnie Tyler, Lulu, Ronan Keating, Jason Donovan, Michael W Smith, Connah Reeves, Nick Carter, The Hollies, Colin Blunstone, Imogen Heap, Archbishop Desmond Tutu, Darius, Gary Barlow and Let Loose.
Di lui si perdono completamente le tracce fino al 1999, quando pubblica l’album “15 minutes“, guidato dal singolo “Somebody Loves You“, che raggiunge la posizione 70 in Gran Bretagna e che lo porta sia ad avere un ottimo consenso da parte della critica sia a collaborare con il gruppo elettronico francese Les Rhytmes Digitales per il brano “Sometimes“, che raggiunge la 56esima posizione nelle classifiche inglesi.
Nello stesso anno Kershaw risale agli onori della cronaca grazie ad un fortunatissimo remix di un suo successo, “The Riddle“, fatto dal DJ italiano Gigi D’Agostino nel 1999 ed inserito nell’album “L’amour toujours”.
L’artista inglese continuerà la sua carriera, pubblicando altri tre album, “To Be Frank” nel 2001, “You’ve Got to Laugh” nel 2006 e “No Frills” nel 2010.
Sono state inoltre pubblicate almeno 5 sue raccolte a partire dal 1991 con “The Collection” e “Wouldn’t it Be Good“, per proseguire con “The Best of Nik Kershaw” nel 1993, “The Essential” nel 2000 e “Then and Now“, raccolta che raggiunge la 182esima posizione nelle classifiche inglesi.
Si è separato dalla moglie nel novembre 2003. Ha anche collaborato con Elton John e con Tony Banks dei Genesis.

NIK KERSHAW Wouldn't It Bee Good (Vinyl)

 

 

 

 

The Twins 

Pochissime band sono riuscite a partorire una formula originale e svincolata da ogni tempo e tendenza, come quella dei Cocteau Twins. Partiti da suoni tenebrosi e claustrofobici, debitori per molti versi di Siouxsie & The Banshees, gli scozzesi sono approdati a un pop etereo, visionario e onirico, ancora in qualche modo memore delle radici darkwave (soprattutto nei ritmi sintetici e nelle penetranti linee di basso), ma dagli sviluppi totalmente peculiari e inediti. Nei loro madrigali ultraterreni, un flusso sonoro, impregnato di dissonanze, echi, riverberi, scorre via fluido, libero, leggerissimo, e si libra in voli estatici fino ad altezze irraggiungibili. Con uno spettro di influenze che spazia dal folk celtico al gothic, dai melismi mediorientali all’ambient music. Le loro sembrano a tutti gli effetti “canzoni” regolari, accattivanti e orecchiabili; in realtà pochi gruppi hanno compiuto perimentazioni tanto ardite, a partire dal canto semplicemente indescrivibile di Elizabeth Fraser. Una voce cristallina, che sa essere infantile e spiritata, eretica e angelica al tempo stesso. E’ lo strumento in più al servizio delle loro ambientazioni trasognate, all’insegna di una sorta di trance ipnotica, in cui possono coesistere il peggior incubo e la visione più celestiale. Da qui, la definizione di “dream-pop” o “ethereal wave” per il genere ideato dalla band scozzese. Un approccio che, seppur erede della psichedelia, non insegue “paradisi artificiali” della mente, ma scava nei recessi più profondi dell’inconscio, alla ricerca delle emozioni più intime dell’animo umano e di una visione trascendente della realtà.

Ma partiamo dall’inizio. Due giovanotti di nome Robin Guthrie e Will Heggie vivacchiano in quel di Grangemouth, Scozia, affettuosamente definita dal primo “toilet”. Difficile, in effetti, dargli torto: è una grigia area industriale, assai poco in linea con l’immaginario bucolico e fiabesco evocato dalle canzoni della futura band. Spesso i due si spostano nella vicina cittadina di Falkirk, a circa venti miglia da Glasgow. Hanno deciso di formare un gruppo, ma sono ancora alla ricerca di una cantante. L’incontro fatale – e decisivo per le sorti del progetto – avviene in una discoteca locale di nome “Nash”: i due infatti notano una ragazza esile e aggraziata, la convincono a fare un provino e la portano in studio. La fanciulla si chiama Elizabeth Davidson Frazer e non ha mai cantato con una band prima di allora, eppure le sue doti sono subito evidenti. Basteranno i suoi primi vocalizzi davanti a un microfono a convincere tutti.

The Twins | ArtistInfo

Paradossalmente, la più indecisa è proprio lei, che impiegherà qualche tempo prima di decidere se entrare o meno nella band, il cui nome è stato già scelto. Si chiameranno Cocteau Twins, non in onore di Jean Cocteau, ma più semplicemente in omaggio a una canzone omonima dei conterranei Johnny and the Self-Abusers, in seguito ben più celebri come Simple Minds (poi la stessa canzone sarà rinominata “No Cure”). I tre Twins – Elizabeth Fraser (voce), Robin Guthrie (chitarra, tastiere e drum machine) e Will Heggie (basso) – hanno tutti gusti simili: amano il punk dei Sex Pistols, ma anche il post-punk, specie quello a tinte più oscure dei vari Joy Division, Wire e Siouxsie and the Banshees. Della “regina della notte”, la giovane Fraser è una fervente fan e ne mutua le interpretazioni veementi e possedute:  “Da ragazzina ero la punk più dolce che si potesse incontare – racconterà – Ho sempre avuto le braccia piene di tatuaggi di Siouxsie e dei Sex Pistols, ma mi sono sempre vergognata di mostrarli in pubblico. Probabilmente, la gente pensava che stavo sempre con le maniche lunghe perché ero una eroinomane”.
L’aggancio discografico che varrà una carriera intera avviene grazie a un demotape inviato da Robin all’indirizzo di Ivo Watts Russell, ex-dipendente del negozio di dischi della Beggars Banquet e fondatore della 4AD, l’etichetta indipendente che in quel periodo stava beneficiando soprattutto delle prodezze degli australiani Birthday Party, capitanati da Nick Cave. Quei primi lavori dell’ensemble scozzese colpiscono il produttore inglese, sempre a caccia di sonorità sperimentali e innovative. La band viene così invitata a realizzare altro materiale, da inserire nell’album d’esordio, primo di una lunga collezione di lavori destinati a forgiare quello che sarà proprio denominato 4AD sound.
Uscito nel 1980, Garlands lascia trapelare evidenti tracce del retaggio darkwave, a cominciare dall’iniziale “Blood Bitch”, con il loop ossessivo della drum machine (Roland808) a dettare subito le cadenze allucinatorie dell’intera raccolta. Un sound che si fa sempre più distorto e incalzante, come nell’incubo di “Wax And Wane”, in cui il contrasto tra le dissonanze della chitarra di Guthrie e le linee ostinate del basso di Heggie immerge l’ascoltatore in un clima paranoico e alienante, ribadito dall’altrettanto cupa e tesa “But I’m Not”. Sono labirinti mentali dal fascino esoterico, giochi di specchi che affascinano e angosciano.
Ma dietro la cappa di oscurità, già filtrano i primi segnali dell’anarchia vocale della Fraser, che gorgheggia spettrale da par suo nella claustrofobica “Blind Dumb Deaf” e inizia ad abbozzare le sue filastrocche acide, come “Shallow Then Halo”, concedendosi anche qualcuna delle sue prime rime e assonanze (“The Hollow Man”) con le quali giocherà poi a lungo nei lavori successivi. Chiude il cerchio “Grail Overfloweth”, su tonalità più morbide ma non meno inquietanti.

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