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“Amazing Game”Paolo Conte

today21 Febbraio 2022

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“Amazing Game”,è stato pubblicato nel 2016  è un album strumentale costituito da registrazioni effettuate in epoche diverse (dagli anni ‘90 a oggi), per colonne sonore di pièce teatrali e a scopo di studio e sperimentazione. Ventitrè brani liberi, ricchi, strutturati, escono dai cassetti dello chansonnier in accordo con la Decca Records/Universal. Scrittura, improvvisazione e stralci di vita si fondono e si intrecciano in un lavoro che trabocca di energia e piglio creativo. Entrando nello specifico di “Amazing Game” troviamo dodici composizioni (da “Pomeriggio Zenzero” a “The Bridge”) commissionate dalla Regione Liguria per commemorare il centenario della nascita di Eugenio Montale;

cinque (da “Rumbomania” a “Gli Amici Manichini”) furono composti per una pièce teatrale mai andata in scena dal titolo “Gli Amici Manichini”, “Changes All In Your Arms” composto inizialmente per il disco “Razmataz” e la meravigliosa, nonché conclusiva “Sirat Al Bunduqiyyah”, registrata per la pièce teatrale “Corto Maltese” in collaborazione con l’Orchestra Sinfonica delle Marche sotto la direzione di Daniele Di Gregorio. Insieme al cantautore e compositore di Astihanno suonato nel disco: Lucio Caliendo (bassoon), Claudio Chiara (alto sax), Daniele Dall’Omo (guitar), Daniele Di Gregorio (drums – percussions – vibes), Massimo Pitzianti (accordeon – bandoneon – clarinet – baritone sax), Piergiorgio Rosso (violin), Jino Touche (double bass – guitar), Luca Velotti (soprano sax), Luciano Girardengo (cello), Maurizio Bellati (french horn), Alberto Mandarini (trumpet), Jimmy Villotti (electric guitarClaudio Dadone (guitar – accordeon), Piero Conti (drums) e Ginger Rama Brew (cori). Un gruppo di musicisti particolarmente affiatato che ha mostrato sì, grande complicità, ma anche una notevole perizia, testimoniando uno stato di grazia difficile da eguagliare.

Intervista

Paolo, qual è lo spirito che attraversa “Amazing Game”?

In questo progetto c’è sempre il mio gusto, il mio stile, lo stesso presente nelle mie canzoni. Queste composizioni sono molto scritte, solo due pezzi sono improvvisati: il primo è “F.F.F.F,  l’altro è “Fuga in Amazzonia in Re Minore”; in ogni caso si tratta di un’improvvisazione soltanto free e non free jazz.

Un album che non ha paura del silenzio e delle pause…

Il silenzio è sempre stato una bellissima strategia in grado di mantenere viva tutta la tensione di quello che è stato suonato appena due battute prima.

Che legame c’è tra i titoli e i brani?

Ogni composizione è sempre preceduta da titoli provvisori. In genere non c’è mai un legame causa-effetto; è stato tutto molto estemporaneo. Non c’è un filo narrativo, la tracklist è stata costruita a posteriori.

La scelta di un progetto strumentale rivela una vocazione precisa?

Nella mia vita c’è sempre stata passione per la musica, sin dai primi anni in cui collezionavo dischi. Non faccio differenza tra musica strumentale e quella che scrivo per le mie canzoni, il mio stile ed il mio gusto sono rimasti i medesimi, qui non ci sono le distrazioni che possono darti le parole, la musica racconta le cose in modo molto più astratto ed impalpabile.

Cosa rappresenta questa operazione oggi?

Non ho abdicato alla canzone, sono cose che ho scritto per mio diletto e che sono sono state ben suonate dai miei musicisti e anche da me; questo non implica un cambio di rotta della mia musica. Nei concerti che terrò a breve, infatti, farò solo le canzoni del mio repertorio classico. La formula sarà quella ormai consueta tra successi vecchi e nuovi. I musicisti saranno i miei fedeli compagni in questa avventura.

Perché questo album non è jazz?

Da grande appassionato di jazz, ho cristallizzato le mie idee, per questa ragione dico che questo non è un album jazz.

A tal proposito cosa ascolti del mondo jazz?

In qualità di ascoltatore ho studiato tutta la storia jazz, poi pian piano mi sono rifugiato negli arcaici, negli antichi. Gli anni ’30 sono quelli in cui sento le rivoluzioni più forti. Amo la potenza che c’è nel linguaggio che si formò in quegli anni, la costruzione dell’espressività dei musicisti neri e bianchi nel modellare gli stilemi di un certo linguaggio.

Che rapporto hai con la musica classica?

C’è sempre stato un bel rapporto. Da un po’ di anni la sera mi sintonizzo sul canale 138 di Sky dove trovo grandi concerti di grandi solisti. Ho le mie preferenze: adoro il pianismo di Chopin, mi ha impressionato Erik Satie. Ho avuto una bella conferma con Schumann, mi piace sempre molto Ravel nonché l’imponenza pianistica di Beethoven.

 Cosa pensi del premio Nobel a Bob Dylan?

Sono d’accordissimo. Questo tipo di apertura avvenne proprio con Dario Fo, in quel caso avvenne con il teatro, in questo caso con la musica. Non mi scandalizzo, mi congratulo con Dylan. Tra gli anni ‘70 e ’90 in Italia i cantautori italiani hanno speso grandi energiae letterarie, spesso molto di più rispetto ad altre nazioni. Il più grande è stato Enzo Jannacci, lo dico anche a distanza di diversi anni.

Hai un erede artistico?

No, sento di avere avuto migliaia di maestri ma nessun erede, forse è un mio difetto non riuscire a trasmettere quello che faccio.

Hai messo da parte molte composizioni, è successo anche con le canzoni?

Sì certo, nei cassetti giace ancora qualcosa.

Di questo terzo millennio, cosa pensi, come ti ci trovi?

Da un punto di vista artistico non sento grandi differenze. Mi dà fastidio la presenza troppo forte del contenuto rispetto alla forma. C’è ancora troppa voglia di comunicare e di spiegare le cose.

Cosa ti aspetti da questo disco?

Come al solito non mi aspetto nulla in particolare. La Decca è una casa discografica importante, storica, poi in questo periodo i dischi strumentali hanno una buona chance all’estero…chissà!

Come ti prepari agli 80 anni?

Tengo duro, cerco di reggere e di sognare ancora qualcosa. Mi piacerebbe lavorare e comporre per il cinema.

Scritto da: Roberto

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