sono un gruppo musicale new wave e pop rock britannico formato nei primi anni ottanta dal chitarrista Roland Orzabal e dal bassista Curt Smith.
Il gruppo fu inizialmente associato ai movimenti new wave e new romantic ma presto irruppe nel mainstream delle grandi hit parade internazionali.
Il nome del duo deriva da un trattamento psicoterapeutico sviluppato dallo psicologo Arthur Janov, nel corso del quale il paziente riprova le primissime sensazioni dell’età perinatale, da cui il nome “Tears for Fears” (lacrime di paure). Orzabal e Smith si incontrarono da adolescenti nella città di Bath. Il loro primo approccio alla musica avvenne con il gruppo dei Graduate, che, rifacendosi al movimento mod revival/new wave, riassumeva al contempo in sé le maggiori influenze musicali del periodo, come The Jam ed Elvis Costello. Nel 1980 i Graduate pubblicarono un primo album, Acting My Age, che raggiunse appena la Top 100 nel Regno Unito, permettendo al gruppo di esibirsi, suscitando una buona impressione, in Spagna e nei Paesi Bassi. Nel corso del 1981, Orzabal e Smith intesero concentrarsi sull’emulazione di altri artisti dell’era Post-punk, come i Talking Heads e Brian Eno. I due abbandonarono quindi i Graduate e formarono un gruppo chiamato The History of Headaches, nomignolo che fu presto cambiato in Tears for Fears. Il progetto fu per Orzabal e Smith quello di formare il nucleo del gruppo e di attorniarsi di musicisti per completare il quadro. Tears for Fears furono scritturati dalla Phonogram Records nel 1981 grazie al manager di A&R Dave Bates. Il loro primo singolo come Tears for Fears, Suffer the Children, fu pubblicato per quella etichetta nel novembre 1981, seguito dalla prima edizione della hit Pale Shelter nel marzo 1982. Il vero successo fu raggiunto con il terzo singolo Mad World che raggiunse il podio nel Regno Unito nel dicembre 1982. Il loro primo album, The Hurting, fu pubblicato nel marzo 1983. In questo album, e nel seguente, il tastierista e compositore Ian Stanley e il batterista Manny Elias furono considerati a pieno titolo membri della band. L’album offriva canzoni raffinate basate sull’uso del sintetizzatore e testi che riflettevano l’infanzia amara e l’educazione vissuta da Orzabal. The Hurting può essere considerato l’unico vero concept album della band, in base al fatto che i riferimenti allo sconvolgimento e alla prima terapia sono frequenti in ogni canzone. Lo stesso album raggiunse il 1º posto nel Regno Unito – dove ebbe un largo impatto – e sfornò le prime hit, Mad World, Change e Pale Shelter. Alla fine del 1983 la casa discografica mise sul mercato un singolo inedito, The Way You Are, per mantenere l’attenzione del pubblico sulla band mentre lavorava sul suo secondo album. Questo singolo fu l’ultima immersione dei Tears for Fears nell’atmosfera New Wave con largo uso di sintetizzatori. Orzabal e Smith abbandonarono per sempre i temi leggeri del pop per concentrare la loro attenzione sull’era del governo di Reagan negli USA e della Thatcher nel Regno Unito. L’album che uscì nel febbraio 1985, Songs from the Big Chair ne fu il risultato, in quanto esulò dal marchio Synthpop per catapultare la band verso un genere più raffinato e studiato. Col contributo del team di produzione di Chris Hughes e Ian Stanley, il nuovo suono dei Tears for Fears fu l’ideale propellente del lancio di Songs from the Big Chair sul mercato, raggiungendo vendite da quadruplo disco di platino. Il titolo dell’album si ispirava a una mini-serie britannica famosa, Sybil, la storia di una donna dalla personalità multipla che spesso si rifugiava nella sua personale “grande sedia” (in inglese, big chair). L’album rappresentò un grande successo mondiale e divenne assai famoso grazie ai singoli Mothers Talk, Shout (1° negli USA), Everybody Wants to Rule the World, Head Over Heels e I Believe. Dopo Songs from the Big Chair la band si mise in viaggio per un lungo tour mondiale, a seguito del quale Manny Elias abbandonò il gruppo. Il duo inglese toccò anche l’Italia per la prima volta nel Songs from the Big Chair Tour del 1985:il 28-29-30 ottobre a Torino, Milano, Firenze. Durante il 1985, irruppe una controversia riguardo alla mancata partecipazione della band al Live Aid di Bob Geldof.
I Tears for Fears furono originariamente scritturati per esibirsi al JFK Stadium a Filadelfia, e la mattina dello storico evento, il 13 luglio 1985, fu annunciato che il gruppo non avrebbe più partecipato allo show. La ragione ufficiale del loro forfait era la mancata disponibilità dei componenti del gruppo, il chitarrista Andrew Saunders e il sassofonista William Gregory, in quanto il loro contratto era scaduto. La band comunque assicurò che avrebbe donato all’organizzazione Aid di Geldof i proventi delle quattro più importanti date del loro tour mondiale in Tokyo, Sydney, Londra e New York. Sei settimane dopo, però, fu rivelato che il vero motivo della mancata partecipazione all’evento, era che Orzabal pretendeva garanzie dall’organizzatore Geldof perché i soldi dell’evento fossero effettivamente utilizzati per combattere la fame nel mondo. Fu anche detto che Geldof fece un certo pressing sulla band perché partecipasse dicendo che i Tears for Fears avrebbero contribuito alla morte di mezzo milione di africani se non si fossero esibiti. Nel 1989 il gruppo pubblicò il suo terzo album, The Seeds of Love a un costo di produzione di oltre un milione di sterline inglesi. Muovendosi tra vari studi di registrazione e avvalendosi di vari set di produzione, la band scelse il meglio, e anche la strada più dispendiosa. Molto del materiale del disco fu registrato in jam-session e più tardi edito sul mercato. La durata della produzione lasciò band e casa discografica in debito e in cerca di guadagni. L’album offrì al pubblico tuttavia il miglior sound della band, con influenza provenienti dal jazz e dal blues sino ai Beatles, matrice assai evidente nel suo singolo più famoso, Sowing the Seeds of Love. Dell’album fa parte anche un altro singolo, Woman in Chains, che raggiunse la Top 20 in Francia, Italia, Paesi Bassi, e in molti altri paesi, nel quale compaiono Phil Collins in veste di batterista, e Oleta Adams – di cui Orzabal si avvarrà nella sua carriera solista – alla seconda voce. L’album rappresentò un reale successo in tutto il mondo, anche se si posizionò in posti più bassi nelle classifiche rispetto a Songs from the Big Chair. La band cominciò il lunghissimo tour Seeds of Love, sponsorizzato dalla Philips per cominciare a riparare i debiti contratti per la produzione. Lo show apparve sul video Going to California, che includeva anche le clip dei singoli Advice For the Young at Heart e Famous Last Words, rispettivamente terzo e quarto estratto dall’album.
SPANDAU BALLET
Duran Duran o Spandau Ballet? Rebus ancora oggi di difficile soluzione. Chi c’era negli anni Ottanta ricorderà bene come questo interrogativo abbia turbato i sonni di un’intera generazione, ma sa altrettanto bene che dietro a un quiz molto comodo al marketing e all’industria discografica si nasconde una risposta, qualunque essa sia, di elevata qualità musicale. Spesso bollati come idoli per teenager, i due gruppi più chiacchierati e fraintesi del decennio con il tempo hanno ottenuto giustizia e credibilità, con i dovuti interessi. Ma se sappiamo praticamente tutto dei wild boys di Birmingham, vuoi per un’attività in studio più intensa vuoi per una carriera più longeva, resta ancora qualche punto oscuro, sul quale cercheremo di fare luce, nella storia di queste talentuose “anime soul d’occidente”, come li definì nel 2014 la cineasta John Henken in una pellicola imperniata sulla loro vicenda biografica. A cominciare dal nome del gruppo, dietro al quale si nasconde un macabro significato. Spandau oggi è una verde zona pedonale situata dieci chilometri a Ovest di Berlino, alla confluenza dei fiumi Havel e Sprea. In passato la cittadella ospitava un penitenziario tristemente noto per la detenzione dei criminali condannati a Norimberga, demolito definitivamente nel 1987 alla morte del suo ultimo recluso, Rudolf Hess, per evitare che potesse divenire una sorta di meta di pellegrinaggio dei movimenti neo-nazisti. Il “balletto” secondo alcuni è quella straziante serie finale di spasmi e contorsioni dei corpi degli impiccati appesi alla corda, ultimo anelito alla vita un attimo prima che essa finisca. Secondo altri, invece, i cadaveri sarebbero quelli squassati, sempre durante la Prima Guerra Mondiale, dalle raffiche sparate dalle mitragliatrici Maschinegewehr 08, prodotte in una fabbrica che aveva sede nelle vicinanze delle carceri. Di certo c’è che il giornalista musicale britannico e dj per Bbc Radio London Robert Elms, di passaggio nel 1979 a Berlino, lesse sulle pareti del gabinetto di una discoteca la scritta “Spandau Ballet” e la suggerì subito ai ragazzi, di cui era molto amico ancor prima che fan. Un nome davvero cool per una band, devono aver pensato immediatamente Tony Hadley, Steve Norman, John Keeble e i fratelli Martin e Gary Kemp, che a quel tempo si stavano facendo le ossa con una miriade di nomi provvisori prima di appropriarsi definitivamente dell’appellativo che li avrebbe consegnati alla storia.
Entrambi alunni della “Dame Alice Owen’s Secondary School” di Islington, sobborgo nella parte Nord di Londra, Gary e Steve decidono di fondare una band dopo aver assistito nel 1976 a un concerto dei Sex Pistols. Gary Kemp (16 ottobre 1959) proviene da una famiglia della working class e, dopo aver accumulato una significativa esperienza da attore in una compagnia di teatro per bambini e in alcune pellicole della “Children’s Film Foundation”, si appassiona da adolescente a glam rock e progressive. Steve Norman (25 marzo 1960), invece, cresce a Stepney, un quartiere situato nell’area Est della capitale inglese, ed è considerato un autentico prodigio, visto che sa suonare chitarra, tastiere, percussioni e sassofono. A loro si uniscono subito altri tre compagni di scuola: John Keeble (6 luglio 1959), batterista atletico con un passato da promessa del cricket, il fascinoso vocalist Anthony Patrick “Tony” Hadley (2 giugno 1960), figlio di un ingegnere elettrico del Daily Mail, e il bassista Michael Ellison, che completa una line-up che in questa fase embrionale si fa chiamare The Roots (dal nome di una delle primissime composizioni di Gary Kemp intitolata “I’ve Got The Roots” che il neonato quintetto usa proporre nell’aula di musica dell’Istituto durante le pause pranzo insieme ad alcune cover di gruppi che vanno per la maggiore, tra cui “I Wanna Be Your Man” dei Beatles, “Silver Train” dei Rolling Stones e “We’ve Gotta Get Out Of This Place” degli Animals).
Ellison lascia pochi mesi dopo e i Roots diventano The Cut, Steve Norman intanto ci mette una pezza al basso finché non viene ingaggiato in quel ruolo Richard Miller: è il 1977 e ora nascono The Makers, che ricevono i favori della stampa specializzata e si fanno strada nel circuito locale con un divertente power-pop in stile anni Sessanta.
La svolta vera però arriva circa un anno dopo, nel 1978, quando il loro manager Steve Dagger, anch’egli fuoriuscito dai banchi della Dame Alice Owen’s School, consiglia che Martin Kemp (10 ottobre 1961), fratello minore di Gary, assai belloccio e aitante, prenda il posto di Richard, dopo aver notato un certo entusiasmo del pubblico femminile nei suoi confronti. Martin difatti si era spesso aggregato da roadie al resto della comitiva, che dopo il suo ingresso in squadra si ribattezza Gentry ed esordisce ufficialmente il primo luglio 1978 con una serata al Middlesex Polytechnic di Cockfosters.
TALK TALK
I Talk Talk si sono resi protagonisti di una delle più imprevedibili e meravigliose metamorfosi musicali che la storia del pop e del rock abbia conosciuto. Pochi artisti, o band, sono passati in maniera così radicale da una completa aderenza alle mode musicali, nella prima parte della carriera, a una completa autonomia da queste, cosa avvenuta gradualmente nella seconda fase della loro vita artistica. Mark Hollis è sempre stato la guida della band, cantante, autore e fondatore. Muove i primi passi nella sua Tottenham, a Londra, spalleggiato dal fratello Ed, più grande di lui e inserito nella realtà musicale del periodo. Con il nome di “The Reaction” i due, siamo nel 1979, riescono anche a infilare un loro brano in una compilation dell’allora astro nascente Beggars Banquet. Hollis però ha altre ambizioni, e comincia a creare quello che poi sarà il progetto Talk Talk. Il lavoro viene premiato allorché la Island gli offre la possibilità di incidere alcuni demo, e quando il fratello Ed recluta Paul Webb al basso e Lee Harris alla batteria la squadra è fatta. A credere realmente in loro, però, è la EMI, che gli fa firmare un vero contratto e dà loro la possibilità di incidere un album, addirittura sotto la produzione di Colin Thurston, che aveva appena fatto bingo con il debutto dei Duran Duran. Siamo nel 1982 e sia il disco di esordio The Party’s Over, che i singoli estratti, “Talk Talk” e la più incisiva “Today” (14° posto in classifica), vanno ricondotti in quel periodo pop chiamato un po’ pomposamente “new-romantic”, che vede proprio la band di Simon Le Bon come una delle punte di diamante. Nonostante l’efficacia dei singoli, il disco è complessivamente mediocre e i Talk Talk si confondono nel gruppone di band che guardano ai suoni sintetici alla moda e ai ritmi da discoteche new wave. Che fossero panni stretti diviene presto evidente: addirittura Colin Thurston lascia la produzione in corso d’opera, e Hollis, Webb e Harris cercano autonomamente una direzione artistica più soddisfacente. Sarà determinante l’incontro con Tim Friese-Greene, che, pur non rientrando nella line-up ufficiale della band, si può considerare da questo momento in poi il “quarto uomo”. Friese-Greene si mette in quella che si può considerare una vera e propria cabina di regia: produttore, tastierista e compositore insieme a Hollis della quasi totalità dei brani. Gli effetti di questo inserimento maturano nel secondo album, It’s My Life, che viene pubblicato sempre dalla EMI nel 1984; il primo singolo è la title track che diviene presto una hit di quella stagione (curiosamente, in Italia più che in qualsiasi altro paese, madrepatria inclusa), tanto che oggi è considerato un classico di quel periodo (nel 2004, 20 anni dopo, verrà, banalmente, recuperato dai No Doubt), una canzone semplice ma piena di dettagli tutt’altro che banali, malinconica e seducente. Il singolo successivo, “Such A Shame”, pur rimanendo sempre in ambito pop, è un brano musicalmente più complesso e pregevole, e bissa il successo del primo. Un buon contributo lo donano anche due video memorabili, dove Hollis ha modo di liberare la sua sarcastica e sfacciata mimica facciale. L’album presenta episodi alterni, scontando ancora qualche pezzo scialbo (soprattutto nella seconda parte), ma mostrando una maggior cura negli arrangiamenti, soprattutto nell’utilizzo più ricco delle tastiere, e una gamma espressiva maggiore. Anche la sezione ritmica cresce, il basso di Webb sembra più presente e capace di spiccare per linee melodiche e fantasia, ricordando a volte il celebre Mick Karn (“Such A Shame” ne è il più fulgido esempio). Oltre ai due singoli, spiccano “Dum Dum Girl”, e soprattutto “Tomorrow Started”, brani che confermano il tono complessivamente malinconico e riflessivo dell’album. Manca ancora qualcosa, però.
. Passano due anni e i Talk Talk pubblicano The Colour Of Spring, titolo emblematico: è in primavera infatti che si dispiegano le nuove forme della natura. A conferma della valenza del titolo, la splendida copertina, ancora una volta ad opera di James Marsh che accompagna il gruppo dagli esordi e che lo seguirà sino all’ultima pubblicazione. Si tratta, infatti, di un esemplare album di transizione: i Talk Talk dimostrano di essersi liberati completamente dei cliché di una stagione musicale ormai al termine, e di poter avviare una strada autonoma. Certo ancora non tutto è perfetto, lo stacco non è definitivo, ma dove questo è evidente risplende in tutte le sue potenzialità. Fa effetto la grande quantità di musicisti che collaborano all’incisione del disco, spiccano su tutti per fama Steve Winwood all’organo e David Rhodes alla chitarra, che non sono un semplice fiore all’occhiello, ma donano ai brani maggiore apertura e calore, oltre a far pensare che i Talk Talk vogliano guardare in qualche maniera all’art-rock del decennio precedente.
La percussiva, oscura e insistente “Life’s What You Make It” è il singolo di lancio (che li vede protagonisti persino sul palco di Sanremo). I brani che si differenziano maggiormente dal recente passato però sono altri: l’apripista “Happiness Is Easy”, mascherata inizialmente da docile pop-rock venato di blues, si tramuta in maniera imprevista in una canzone sospesa e dalla forma libera, grazie all’uso sontuoso degli archi e a un inaspettato coro di bambini che duetta con Hollis a fine ritornello.
Poi ci sono “I Don’t Believe In You”, una malinconica a trasognata ballata, e due pezzi dove si manifesta più chiaramente l’ingresso di forme jazz libere, “April 5th” e “Chameleon Day”. Quest’ultimo è un brano breve quanto magico. Imperniato quasi esclusivamente sulla voce e sul piano di Hollis, si presenta come poco più di due minuti di rarefatta e fragile musica, ma quel momento, al minuto 2:18, dove Hollis anticipa con un filo di voce la frase finale del brano, ecco in quel momento si apre una finestra sul futuro prossimo venturo della band, si sprigiona tutta la sensibilità unica e non riducibile di Hollis, che si mette in evidenza come un interprete unico. La sua voce esprime sempre una sofferenza consapevole, a volte disperata ma non per questo priva di volontà. E i suoi Talk Talk sono un gruppo che ormai è in grado di stare, oltre che da soli in piedi, su un piano differente, più in alto.
Descrizione Per la prima volta, la storia di una delle rock band più famose di tutti i tempi viene raccontata con testi e centinaia di immagini inedite da uno dei suoi membri: il co-fondatore, compositore e chitarrista Brian May. Un lungo racconto che a partire dagli anni Settanta ripercorre la travolgente affermazione internazionale del gruppo e approda alle sue più recenti performance insieme al cantante Adam Lambert, spingendosi fino sul […]