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today15 Settembre 2023 18

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EASY GOING

Se alla fine degli anni Settanta foste capitati di notte in Piazza Barberini a Roma, vi sareste imbattuti in un piccolo ma affollato club seminascosto nella salita di Via della Purificazione, un locale di tendenza gay dagli eleganti arredi fassbinderiani, ma anche crocevia notturno di tantissimi personaggi di spicco nella vita culturale ed artistica della Capitale e tappa fissa dei DJ nazionali più conosciuti all’epoca.

Dalla conoscenza dei proprietari Gilberto e Beatrice Jannozzi con due personaggi come Claudio Simonetti (figlio del maestro Enrico e co-fondatore dei Goblin) e Giancarlo Meo (produttore) nacque la creatura Easy Going, nome omaggiante il locale di cui sopra. I due decisero di unire le loro cognizioni musicali per creare musica dance che fosse lo specchio sonoro in cui riflettere quel momento particolare di tendenza culturale: il riflusso stava rimpiazzando l’impegno sociale e la febbre del sabato sera aveva contagiato i dancefloor nostrani già un anno prima. Inoltre i producer italiani andavano forte anche oltreoceano (Mauro Malavasi docet) per cui fu possibile per loro contare su produzione e collaboratori che garantissero un sound in grado di aprire scenari commerciali più vasti.

Easy Going - Italian disco club 1978 - YouTube

’esordio a 33 giri omonimo del 1978 non lascia spazio a dubbi sulla provenienza gay-disco del progetto: pubblicato su etichetta Banana Records (fondata dallo stesso Giancarlo Meo) ha in copertina un mosaico di lotta maschile tra un marinaio e un poliziotto rigorosamente nudi, fotografato nel club romano. Gli amici canadesi stranamente gli preferirono una più “sobria” copertina che immortalava le facce della band: Paul Micioni (all’anagrafe Paolo Micioni, nonché il resident DJ dell’Easy Going di allora) accompagnato da un paio di leopardi e due ambigui figuri vestiti in maniera non esattamente sobria, Francesco Bonanno e Ottavio Siniscalchi, DJ del Mais, altro locale romano, funzionali quanto lo sarà Mauro Repetto nei live degli 883.

La musica è la cosa più importante e deflagra con il pezzo che definirà per antonomasia il gruppo: “Baby I Love You” uscita anche come primo singolo, cantata da una voce filtratissima (Paul Micioni o lo stesso Claudio Simonetti?) su un ipnotico tappeto di tastiere. Un esordio al fulmicotone.

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GEPY AND GEPY

Gepy & Gepy, non un duo ma bensì il nome d’arte di un solo personaggio, è una figura particolare della musica italiana che ottenne un più che discreto successo tra la fine degli anni ’70 e i primissimi ’80 in piena Febbre del Sabato Sera. Vero nome Giampiero Scalamogna, classe 1943 e originario di Roma, fu un vero e proprio enfant prodige iniziando giovanissimo la sua carriera al solito Piper esibendosi insieme alla cantante Daniela Casa nel duo Gepy & Dany, coverizzando canzoni soul e rhythm & blues.

Già nel 1967 riesce a guadagnare l’attenzione di diversi produttori che gli procureranno un contratto con la ARC, pubblicando così il suo primo singolo all’età di 24 anni. Ormai solista decide di adottare come nome d’arte Gepy & Gepy, affermando di averlo scelto in quanto la sua imponente massa corporea valeva “il doppio del normale”.

“Baby, è Un’Abitudine Averti Qui”, cover italianizzata di “Baby, Now That l Found You” dei Foundations, centra il bersaglio mostrandoci la voce già matura e incredibilmente nera del giovane interprete che segue le orme di Sam Cooke e Otis Redding.

Il secondo 45 giri “Il Mio Destino” del 1968 è però molto meno interessante, se la voce del ragazzo c’è, il brano manca di personalità andando ad abusare di tutti gli stereotipi della musica leggera italiana dell’epoca, tanto che potrebbe essere tranquillamente una canzone di Gianni Morandi. Suscita scarso interesse anche il successivo e ancor meno conosciuto singolo “Casatschok“, ennesima ed evitabile riproposizione in chiave simil-russa della ballata del piccolo cosacco, registrata sotto il nome di “Gepyosky & I Suoi Cosacchi”.

Gepy & Gepy - Discografia

Negli anni successivi il progetto Gepy & Gepy venne messo da parte (unica eccezione l’indimenticabile duetto con Ornella Vanoni in “Più” nel 1976, vero tesoro della musica italiana dell’epoca nonchè title track dell’album da lui interamente prodotto) mentre Giampietro Scalamogna si dedica principalmente ad una proficua carriera di paroliere e compositore spesso sotto il nome di Sergepy, lavorando anche con Riccardo Fogli, Ricchi e Poveri, Patty Pravo e Il Rovescio Della Medaglia, ma la soddisfazione più grande da tifosissimo della Roma giunse producendo e aiutando a scrivere “Roma (Non Si Discute, Si Ama)”, hit di Antonello Venditti del 1974 diventata poi l’inno ufficiale della squadra calcistica della capitale.

naspettatamente a circa dieci anni dal suo dimenticato debutto ufficiale Gepy & Gepy ritorna a registrare ed inizia la sua breve ma intensa fase di successo. Nel 1977 infatti esce il singolo “Blu” per la Vanilla (etichetta fondata da Ornella Vanoni). In copertina lo possiamo ammirare in salopette e in compagnia di un’avvenente donna, elementi questi due che diverranno i tratti caratteristici delle sue copertine e delle sue apparizioni televisive e non.

Gepy & Gepy – Body To Body (1979, Vinyl) - Discogs

 

 

 

 

DIANA EST

Una dea sintetica, un’angelica raffigurazione dell’effimero-80 in peplum, calzari e guanti da cucina. O forse solo la fulminante allucinazione di chi aveva fatto troppi cerchi con la mente. Diana Est resta uno dei più grandi misteri dell’italpop. Se fosse stata solo un fenomeno passeggero, cavalcato dalle mode del tempo – come proprio all’epoca si sosteneva – non sarebbe divenuta maschera intergenerazionale, meritevole di dotte analisi e addirittura ispiratrice di racconti e libri (due su tutti: “Magnifica ossessione” di Matteo B. Bianchi e “Diana Est was here – Forse è già mattino e non lo so” di Enrico Panzi). Perché al di là del valore – per chi scrive, tutt’altro che trascurabile – delle due hit lasciate in dote, il personaggio è riuscito a guadagnarsi un’aura di immortalità che è per l’appunto l’esatta negazione dei suoi presupposti. Un’icona di plastica e fugacità, eppure, a suo modo, definitiva. Chissà che ne pensa la Cristina Barbieri di oggi, mamma di due figli e antiquaria, ormai a distanza di sicurezza da quella “civiltà delle banalità” che ha sempre identificato nel music business. In attesa – forse infinita – di saperlo, tentiamo una ricostruzione. Quando nel 1982 firma un contratto quinquennale con la Dischi Ricordi, Cristina Barbieri è solo “la nipote di Mario Lavezzi”, una ragazza milanese di buona famiglia, nascosta da un ciuffo ingombrante, con alle spalle un’apparizione in tv come corista per Ivan Cattaneo nel programma-cult Rai “Mister Fantasy” di Carlo Massarini. La stoffa c’è, ma la signorina è acerba, da plasmare. Magari in studio, come avrebbero fatto un paio d’anni dopo con la carneade Monica Stucchi, tramutata in sua maestà Valerie Dore, regina medievale dell’italo-disco con voce altrui (Dora Carofiglio dei Novecento) nei primi singoli.

Diana Est: la voce enigmatica dell'italo disco

Ma forse non c’è bisogno di arrivare a tanto: si può cercare di tendere quelle corde vocali da teenager verso ambiziosi traguardi elettropop. Anche perché in cabina di regia c’è un certo Enrico Ruggeri, che con le sue montature plasticate e il suo charme neoromantico ha fatto sfracelli, prima con i Decibel e poi al debutto solista con l’incompreso “Champagne Molotov”. Ma se il cantautore milanese provvederà soprattutto alla confezione musicale, a quella estetica darà man forte il produttore artistico, Nicola Ticozzi, deciso a forgiare una nuova figura femminile sull’onda delle novelle yè-yè alla Lio, Nathalie o Nena, ma in chiave più postmoderna. Si compie così la metamorfosi di Cristina in Diana, dea della Caccia che alla sacralità mitologica abbina un gusto futurista provocatorio e glamour, in uno scombinato miscuglio di classicità e fantascienza kitsch. “Una lolita dallo spazio profondo, un’ancella dell’impero romano virata Mitteleuropa fine Novecento, accesa/spenta da un’androginia sottile che sconfina nell’impalpabilità angelica”, la definisce Christian Zingales nel libro “Italiani bravi gente” (tratto dall’omonima rubrica di Blow-Up).
Ecco allora spuntare tuniche fucsia, guanti gialli e orecchini in pvc, oltre a quella surreale frangia da party in maschera al Blitz, che Diana scuote con secchi movimenti del capo. Le prime esibizioni la vedono un po’ rigidina, ma già altera e sfrontata, nella sua esile silhouette di silfide neoclassica. Affronta temerariamente il pubblico e i pericoli di una comicità involontaria sempre dietro l’angolo. Ad aiutarla è il portamento signorile, un po’ meno la legnosità nei movimenti, che però riesce a camuffare in una sorta di tanz robotica alla Camerini, perfino sensuale nella sua ingenuità: agita le braccia come pale meccaniche, ma ostenta una grazia innaturale, oltre a uno stacco di coscia che può competere con la divina Rettore. E ha uno sguardo distaccato, alieno. Buca lo schermo e pure qualche cuore.

Diana Est – Tenax (1982, Vinyl) - Discogs

Scritto da: admin

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